Rallegramenti angelici

La caccia | Trasmessa il: 11/18/2007


    Vi confesserò di non sapere con quali parole esatte l’arcangelo Gabriele si sia rivolto a Maria nella circostanza dell’Annunciazione. Siccome anche gli angeli devono farsi capire, avrà parlato, suppongo, in aramaico, che era la lingua corrente in quegli anni in Palestina, e purtroppo per me l’aramaico è un libro chiuso. Ma visto che di quell’evento possediamo un’antica testimonianza, ancorché in lingua greca, in cui il messaggero celeste apostrofa la sua interlocutrice con la formula di saluto Chaire Maria, possiamo supporre che di qualche analoga formula egli si sia servito anche nella lingua originale, probabilmente di una variante di quel “la pace sia con te” che i popoli semiti, forse perché di pace ne hanno sempre goduto, oggi come allora, pochina, si sono sempre ostinati a usare per salutare qualcuno. Chaire, alla lettera, vuol dire “sii lieta”, “rallegrati”, ma è ovvio che alla lettera quell’espressione non va presa. Non c’era nulla di cui rallegrarsi nelle parole dell’angelo, che contenevano il preannuncio di gravi responsabilità e di prevedibili sofferenze future, e certo non si rallegrò la Madonna ascoltandole. Di fatto, la sua reazione passò dall’incredulità (“Ma come può succedere questo?” ) alla rassegnazione (“Io sono l’ancella del Signore…”) e si espresse soprattutto nella forma di un comprensibile turbamento. L’Evangelista, si capisce, avrà usato quell’imperativo di saluto senza badare al suo contenuto semantico, perché nel greco che parlava lui lo si utilizzava comunemente per rivolgersi con cortesia ai propri simili. Di fatto, quando San Girolamo, quattro secoli dopo, tradusse in latino i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, impiegò per quell’allocuzione un altro imperativo, ave, che in latino classico significa “sta’ bene” e si usava soprattutto per congedarsi da chi partiva (o, magari, si dipartiva), ma che ai tempi suoi si era ormai generalizzato come formula salutatoria valida in tutte le circostanze. Onde quell’ “Ave Maria” che, irrigidito in una formula di preghiera, è sopravvissuto fino ai giorni nostri anche in italiano e in qualche altra lingua come l’unico modo possibile per rivolgersi a Colei che, da allora, è considerata benedetta tra le donne. Ma non è obbligatorio, naturalmente, perché i parlanti altre lingue hanno preferito la comprensibilità alla tradizione, per cui i francesi pregano la Madonna dandole del voi e dicendo Je vous salue, gli inglesi si attengono a un più sobrio Hail, Mary, gli spagnoli restano fedeli a un enfatico Dios te salve e i tedeschi non rinunciano al loro pedantesco Gegrüßt seist Du. E così via.

    Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, come i dotti monsignori incaricati dalla CEI (come apprendo da “Repubblica” del 13 ultimo scorso) di metter mano al “Lezionario”, come a dire a un elenco delle espressioni usate nella liturgia, riportate ciascuna all’appropriata forma italiana, hanno commesso, proponendo la traduzione “Rallegrati, o Maria”, una clamorosa cazzata. Hanno recuperato il valore originario del termine greco, ma non certo quello che intendeva l’apostolo Luca quando l’ha usato, e hanno introdotto nel testo un elemento che ne era originariamente assente. In un certo senso, si potrebbe dire, hanno travisato, a addirittura falsificato, uno dei passaggi più famosi e amati di tutte le Scritture e in un’epoca di maggiore sensibilità teologica non sarebbero sfuggiti al rogo.
    O forse, naturalmente no. Dipende tutto dal tipo di teologia che si vuol proporre ai fedeli. La chiesa ha sempre trattato i testi delle Scritture con una certa creatività – basta pensare a come si è accanita sul “non ci indurre in tentazione” del Padre nostro, trasformato, dal medesimo Lezionario, in un “Non abbandonarci alla tentazione” che pochissimo ha a che fare con il “Kai men eisenengheìs emàs eis
    peirasmòn" dell’originale – quando si trattava di superare difficoltà teoriche o di imporre una certa versione del proprio messaggio. E in questo caso le esigenze che hanno presieduto all’operazione sono chiaramente riconoscibili: non solo quella di avvicinarsi quanto più possibile al linguaggio parlato, eliminando tutti i termini alti restati impigliati nel testo, compreso quell’innocuo “ave”, ma anche sottolineare l’aspetto gioioso, liberatorio della proposta cristiana. È da parecchio, in realtà, che le gerarchie si sforzano di attribuire al messaggio di cui sono portatrici una letizia che una lunghissima tradizione di cupezza ecclesiastica sembrava escludere e a tal fine anche un “Rallegrati, Maria” al posto di un enigmatico “Ave” o di un più banale “Ti saluto” può essere utile. La sostituzione fa parte di quel tentativo di cambiare pelle, o, se preferite, di rifarsi il look in cui la Chiesa si è impegnata (con risultati, tutto sommato, mediocri) nell’ultimo mezzo secolo.
    Per fortuna che poi ci pensa papa Ratzinger a riproporre la messa in latino.

    18.11.’07


    Nota

    Il racconto dell’Annunciazione e il testo del “Padre nostro”, come è noto, si trovano entrambi nel Vangelo secondo Luca, rispettivamente in I, 26-38 e XI, 11.