Radici

La caccia | Trasmessa il: 11/01/1998



Probabilmente ricorderete tutti una serie di immagini pubblicitarie che, fino a qualche giorno fa, facevano bella mostra di sé sui muri cittadini e, a piena pagina, sui principali quotidiani, mostrando delle figure femminili in attività e acconciature che al mondo femminile normalmente non si associano: che so, donne intente a saltare da una liana all’altra nella giungla o addobbate nella foggia tradizionale dei capitani pirati, con tanto di tricorno e benda sull’occhio.  Si trattava della campagna a favore di un periodico per signore, le cui lettrici, si garantiva, incarnavano una “idea sconfinata di donna”, al punto da richiedere, per essere correttamente definite, l’invenzione del vocabolo “uoma”.  Che dovrebbe essere, immagino, il femminile grammaticale di “uomo”, impiegato a garanzia del fatto che, d’ora in poi, quante in quel settimanale si riconoscono in nulla dovranno considerarsi deprivate rispetto alle loro controparti maschili, tanto è vero che potranno assumersi senza problemi qualsiasi concepibile ruolo sociale, compresi quelli di Tarzan e di Capitan Uncino.
Già la scelta di simili personaggi, naturalmente, pone qualche problema.  Qualcuno, per esempio, potrebbe chiedersi quanto possa essere considerata corretta per chiunque, uomo o donna, l’identificazione con un personaggio ostensibilmente afflitto da una menomazione fisica (quella indicata dalla benda sull’occhio). Non si dovrebbe fare dello spirito sulle disgrazie altrui e la cosa dovrebbe essere considerata gravemente offensiva nei riguardi di chi da quella menomazione è effettivamente colpito, e non la vive certo come una fortuna di cui rallegrarsi.  Ma sappiamo tutti che delle disgrazie altrui poco si cura, con i tempi che corrono, chi si propone di far comprare qualcosa a qualcun altro.
        Ma, benda sull’occhio a parte, quella pubblicità poteva offendere anche sotto altri aspetti.  So, per esempio, che un certo numero di colleghe di Radio Popolare non sono state precisamente entusiaste all’idea che la piena realizzazione (l’idea sconfinata) dello stato femminile debba identificarsi di necessità con l’adozione di ruoli e definizioni maschili e credo anzi che sia anche grazie al loro sagace intervento se una variante parlata di quella campagna è stata pietosamente rimossa dal nostro palinsesto. Anche dal punto di vista linguistico, d’altronde, il tentativo di imporre artificialmente alla comunità dei parlanti vocaboli che, allo stato, nessuna persona ragionevole si sognerebbe di usare, potrebbe essere considerato una bella prepotenza.  Per non dire che la sola idea che qualcuno, per aver avuto un’idea di così sublime idiozia, ne abbia ricavato un profitto che temo cospicuo non può che offendere quanti si guadagnano onestamente da vivere con il sudore della propria fronte.
        Ma lasciamo perdere.  Se vi parlo di quella infelice trovata è perché mi ha fatto venire in mente un’osservazione che, nella sua ovvietà, finora mi era sfuggita.  In nessuna delle lingue di cui ho maggiore o minore conoscenza o sulle quali ho potuto raccogliere informazioni attendibili i termini usati per indicare l’uomo e la donna nascono dalla stessa radice.  In greco, nelle lingue neolatine, in quelle germaniche, in quelle slave, in arabo, in turco, in cinese e in giapponese uomo e donna “si dicono” in modo affatto diverso.  La parziale eccezione dell’inglese, in cui la sillaba finale di woman deriva evidentemente da man, si spiega con un’integrazione recente dell’originaria radice germanica *wib, quella che si ritrova nel tedesco Weib e nello stesso inglese, con un uso semanticamente specializzato, come wife.  Woman vale, semplificando, per “femmina d’uomo” e contiene in sé, ben distinte, entrambe le radici.  Per quel che ne so, soltanto in tedesco e in giapponese, a riconoscimento della leggendaria precisione (o della pedanteria, fate voi) dei relativi popoli, esiste un termine “neutro” che indica tutti gli appartenenti alla nostra specie, senza specificazione di sesso: tutte le altre lingue impiegano in senso generale l’espressione maschile.  E se questa è, ovviamente, la conseguenza di un certo sviluppo storico, vale la pena di notare che non si tratta di una conseguenza obbligatoria: in greco, per tutti gli animali che non siano l’uomo, vale il contrario.
        Naturalmente la mia cultura linguistica è limitata e nulla garantisce che in qualcuna delle circa cinquemila lingue diverse che si parlano al mondo le cose stiano in tutt’altro modo.  Mi piacerebbe scoprirlo, anche se dubito che la situazione attuale degli studi linguistici lo consenta.  Ma possiamo ricavare comunque un certo conforto dall’osservazione del fatto che il linguaggio, almeno in questi casi a noi noti, si dimostra più ragionevole dell’ideologia.  La denominazione, in fondo, presuppone la diversità: si indicano con nomi diversi realtà che, di primo acchito, si identificano appunto come diverse, come appunto diverse, al punto di poter essere definibili per opposizione l’una rispetto all’altra, sono di primo acchito la persona maschile e quella femminile.  Che poi questa diversità possa e debba essere ricondotta a unità su un piano diverso è scoperta successiva, acquisizione storica e culturale, frutto e portato dell’evoluzione di quella che chiamiamo civiltà.  E il fatto che le due radici diverse siano restate in uso dimostra la possibilità, nonostante tutto, di mantenere quelle due realtà sullo stesso piano, di considerarle autonome e appunto in quanto tali dotate di pari dignità, anche se di tale riconoscimento la storia è stata talvolta avara.  Femminilizzando un termine maschile, o mascolinizzando un termine femminile, applicando - cioè -  procedure che, nel nostro sistema linguistico, sono state inventate per gli aggettivi, non per i sostantivi, si affermerebbe la volontà di considerare una delle due realtà come derivata dall’altra e quindi, implicitamente, inferiore.  Come implicitamente inferiori considera le sue lettrici, nonostante ogni affermazione in senso contrario, il periodico raccomandato dalla campagna pubblicitaria da cui siamo partiti.
        Con il linguaggio, si sa, si può fare di tutto, ma bisogna essere disposti ad accettarne le conseguenze.

01.11.’98