Probabilmente ricorderete tutti una
serie di immagini pubblicitarie che, fino a qualche giorno fa, facevano
bella mostra di sé sui muri cittadini e, a piena pagina, sui principali
quotidiani, mostrando delle figure femminili in attività e acconciature
che al mondo femminile normalmente non si associano: che so, donne intente
a saltare da una liana all’altra nella giungla o addobbate nella foggia
tradizionale dei capitani pirati, con tanto di tricorno e benda sull’occhio.
Si trattava della campagna a favore di un periodico per signore,
le cui lettrici, si garantiva, incarnavano una “idea sconfinata di donna”,
al punto da richiedere, per essere correttamente definite, l’invenzione
del vocabolo “uoma”. Che dovrebbe essere, immagino, il femminile
grammaticale di “uomo”, impiegato a garanzia del fatto che, d’ora in
poi, quante in quel settimanale si riconoscono in nulla dovranno considerarsi
deprivate rispetto alle loro controparti maschili, tanto è vero che potranno
assumersi senza problemi qualsiasi concepibile ruolo sociale, compresi
quelli di Tarzan e di Capitan Uncino.
Già la scelta di simili personaggi,
naturalmente, pone qualche problema. Qualcuno, per esempio, potrebbe
chiedersi quanto possa essere considerata corretta per chiunque, uomo o
donna, l’identificazione con un personaggio ostensibilmente afflitto da
una menomazione fisica (quella indicata dalla benda sull’occhio). Non
si dovrebbe fare dello spirito sulle disgrazie altrui e la cosa dovrebbe
essere considerata gravemente offensiva nei riguardi di chi da quella menomazione
è effettivamente colpito, e non la vive certo come una fortuna di cui rallegrarsi.
Ma sappiamo tutti che delle disgrazie altrui poco si cura, con i
tempi che corrono, chi si propone di far comprare qualcosa a qualcun altro.
Ma,
benda sull’occhio a parte, quella pubblicità poteva offendere anche sotto
altri aspetti. So, per esempio, che un certo numero di colleghe di
Radio Popolare non sono state precisamente entusiaste all’idea che la
piena realizzazione (l’idea sconfinata) dello stato femminile debba identificarsi
di necessità con l’adozione di ruoli e definizioni maschili e credo anzi
che sia anche grazie al loro sagace intervento se una variante parlata
di quella campagna è stata pietosamente rimossa dal nostro palinsesto.
Anche dal punto di vista linguistico, d’altronde, il tentativo di imporre
artificialmente alla comunità dei parlanti vocaboli che, allo stato, nessuna
persona ragionevole si sognerebbe di usare, potrebbe essere considerato
una bella prepotenza. Per non dire che la sola idea che qualcuno,
per aver avuto un’idea di così sublime idiozia, ne abbia ricavato un profitto
che temo cospicuo non può che offendere quanti si guadagnano onestamente
da vivere con il sudore della propria fronte.
Ma
lasciamo perdere. Se vi parlo di quella infelice trovata è perché
mi ha fatto venire in mente un’osservazione che, nella sua ovvietà, finora
mi era sfuggita. In nessuna delle lingue di cui ho maggiore o minore
conoscenza o sulle quali ho potuto raccogliere informazioni attendibili
i termini usati per indicare l’uomo e la donna nascono dalla stessa radice.
In greco, nelle lingue neolatine, in quelle germaniche, in quelle
slave, in arabo, in turco, in cinese e in giapponese uomo e donna “si
dicono” in modo affatto diverso. La parziale eccezione dell’inglese,
in cui la sillaba finale di woman deriva evidentemente da man, si spiega
con un’integrazione recente dell’originaria radice germanica *wib, quella
che si ritrova nel tedesco Weib e nello stesso inglese, con un uso semanticamente
specializzato, come wife. Woman vale, semplificando, per “femmina
d’uomo” e contiene in sé, ben distinte, entrambe le radici. Per
quel che ne so, soltanto in tedesco e in giapponese, a riconoscimento della
leggendaria precisione (o della pedanteria, fate voi) dei relativi popoli,
esiste un termine “neutro” che indica tutti gli appartenenti alla nostra
specie, senza specificazione di sesso: tutte le altre lingue impiegano
in senso generale l’espressione maschile. E se questa è, ovviamente,
la conseguenza di un certo sviluppo storico, vale la pena di notare che
non si tratta di una conseguenza obbligatoria: in greco, per tutti gli
animali che non siano l’uomo, vale il contrario.
Naturalmente
la mia cultura linguistica è limitata e nulla garantisce che in qualcuna
delle circa cinquemila lingue diverse che si parlano al mondo le cose stiano
in tutt’altro modo. Mi piacerebbe scoprirlo, anche se dubito che
la situazione attuale degli studi linguistici lo consenta. Ma possiamo
ricavare comunque un certo conforto dall’osservazione del fatto che il
linguaggio, almeno in questi casi a noi noti, si dimostra più ragionevole
dell’ideologia. La denominazione, in fondo, presuppone la diversità:
si indicano con nomi diversi realtà che, di primo acchito, si identificano
appunto come diverse, come appunto diverse, al punto di poter essere definibili
per opposizione l’una rispetto all’altra, sono di primo acchito la persona
maschile e quella femminile. Che poi questa diversità possa e debba
essere ricondotta a unità su un piano diverso è scoperta successiva, acquisizione
storica e culturale, frutto e portato dell’evoluzione di quella che chiamiamo
civiltà. E il fatto che le due radici diverse siano restate in uso
dimostra la possibilità, nonostante tutto, di mantenere quelle due realtà
sullo stesso piano, di considerarle autonome e appunto in quanto tali dotate
di pari dignità, anche se di tale riconoscimento la storia è stata talvolta
avara. Femminilizzando un termine maschile, o mascolinizzando un
termine femminile, applicando - cioè - procedure che, nel nostro
sistema linguistico, sono state inventate per gli aggettivi, non per i
sostantivi, si affermerebbe la volontà di considerare una delle due realtà
come derivata dall’altra e quindi, implicitamente, inferiore. Come
implicitamente inferiori considera le sue lettrici, nonostante ogni affermazione
in senso contrario, il periodico raccomandato dalla campagna pubblicitaria
da cui siamo partiti.
Con
il linguaggio, si sa, si può fare di tutto, ma bisogna essere disposti
ad accettarne le conseguenze.
01.11.’98