Questioni private

La caccia | Trasmessa il: 05/11/2008


    Ce lo hanno spiegato anche delle persone serie, per cui sarà vero. Nella vexata questio della diffusione via Internet delle dichiarazioni fiscali dei concittadini, a quanto pare, bisogna tenere ben distinti, da un lato, la “pubblicità” di quei dati, che è garantita per legge e serve a garantire, a sua volta, la trasparenza fiscale, e, dall'altro, la loro “accessibilità”, che può e deve essere sottoposta a certe limitazioni per salvare la privacy degli interessati. Così si fa in tutti i paesi civili.
    Sarà vero, dicevo, ma, forse perché non sono del tutto sicuro di vivere in un paese civile, è una di quelle verità che non mi convincono troppo. In queste cose è sempre questione di criteri e se i criteri di accessibilità sono stabiliti in modo da rendere l'accesso quanto più impervio possibile, praticabile – al limite – solo da pochi esperti, magari di rango professionale, be', capirete anche voi che la pubblicità va a farsi benedire, la trasparenza anche e l'informazione fiscale si ritrova di botto nel suo abituale stato di opacità. La divulgazione di dati pubblici sì, ma non accessibili si può sempre fare, volendo, ma non sarebbe altro che un singolare ossimoro burocratico, di poca o nessuna utilità per chiunque. Né sembra che, nella ricerca di un equilibrio accettabile tra le due esigenze, ci si possa fidare granché della nostra amministrazione pubblica, che non si è mai distinta per un particolare amore per la trasparenza ed è oltretutto divisa su discriminanti non dichiarate, come ha dimostrato l'indegna gazzarra della settimana scorsa, con i vari rimpalli tra il Ministero (uscente) e l'Ufficio del Garante.
    D'altro canto, il privato è il privato, e non c'è niente di più privato, in Italia, dei soldi. In questo paese, si sa, è più facile sentirsi confidare dati e notizie sulle prestazioni sessuali del partner del proprio interlocutore che informazioni sul suo conto in banca. Sarà naturale ritegno, sarà il tradizionale timore del fisco, sarà addirittura il sostrato della cultura cattolica, che sin dalle origini ha affettato disprezzo per il denaro, considerandolo se non proprio “sterco del demonio” (una definizione che spetta, credo, a Lutero), qualcosa da cui comunque era meglio tenersi lontano e certo da non esibire. Poi, sì, la chiesa chiede le sue brave decime e l'otto per mille e tra quanti riformatori sono usciti dalle sue file con l'idea di ricondurla al pauperismo di un tempo sono più quelli finiti sul rogo che sugli altari, ma questo non le mai impedito di attenersi, con un filo di ipocrisia, al precetto originario. Un precetto, per quanto ipocrita, cui ancor oggi si adeguano fedeli e increduli, a dimostrazione di come, a prescindere dalle convinzioni personali, di cattolici ce ne sono in giro più di quanti vanno regolarmente a messa.
    Un paese sobrio e francescano, dunque, che non esibisce la ricchezza di cui dispone e, se mai, la destina piamente al bene pubblico e alla tutela dei deboli? Be', forse no. Guardiamoci intorno. Nessuno pubblicizza i propri soldi, d'accordo, ma a far mostra con evidente piacere dei beni che ci hanno acquistato sono davvero in tanti. In questo mondo di SUV, telefonini, superattici, indumenti firmati, conti da sballo, seconde e terze case, rubinetterie d'oro, yacht e via andare regna sovrana l'esibizione. E, per di più, in una condizione di pieno consenso sociale. I sciuri, come li si chiamava una volta qui a Milano, non devono più temere di essere presi a sassate dalle plebi in tumulto: in Italia adoriamo a tal punto i ricchi che abbiamo affidato entusiasti il governo al più ricco di tutti. Ed è ovvio che, anche sul suo esempio, perché in queste cose lui non si è mai tirato indietro, ne sia incoraggiata l'esibizione sempre più sfacciata delle proprie disponibilità.
    Sempre più sfacciata, naturalmente, e sempre più sgradevole perché ormai fa contrasto con una crescente, e altrettanto – se pur meno volentieri – esibita, miseria. Lo sappiamo tutti che la spaccatura sociale tra chi “sta bene” e chi no si sta allargando. I segni di un benessere abbastanza diffuso che una volta caratterizzava città come la nostra, stanno inesorabilmente sbiadendo dal panorama antropologico urbano. Provate a guardare come è vestita la maggior parte dei vostri compagni di viaggio in tram: se non sono i classici quattro stracci, poco ci manca. E l'immigrato malconcio che al semaforo si slancia a pulire il parabrezza del macchinone supermegagalattico sarà, sì, inquadrato in un racket, rappresentando quindi un grave pericolo per l'ordine pubblico, ma è anche un simbolo alquanto pregnante del (brutto) mondo che ci tocca.
    Bah. Tutto questo, forse, ci porta lontano dal problema iniziale. Ma questa strana schizofrenia tra ostentazione a oltranza della ricchezza e ritegno sui redditi, lo ammetterete, va in qualche modo sanata. Francamente, non credo sia questione di riservatezza, ma di pura e semplice contraddittorietà dei dati. Per quanto sia gratificante e socialmente produttiva, l'esibizione dei propri beni può entrare in stridente contrasto, ahimè, con quella della dichiarazione dei redditi. I beni si misurano a spanne e sono spesso di origine e attribuzione un po' vaga, le cifre hanno un carattere più sgradevolmente preciso. Se la gente comincia a chiedersi come fa il tale a permettersi quel treno di vita con i quattro soldi che dichiara, chissà dove si può andare a finire, specie in un paese in cui, a quanto si dice, non tutta la ricchezza viene prodotta legalmente. E queste, naturalmente, non sono questioni private: sono affari pubblici a tutti gli effetti, sui quali è opportuno e doveroso il controllo. Il cittadino “normale”, che, oggi come oggi, non può girare neanche un assegno senza sottostare a minuziose e fastidiosissime norme antiriciclaggio ha tutto il diritto di esigere dagli altri la trasparenza che si richiede a lui.
    Date retta: la privacy è una bella cosa, ma quei dati è meglio lasciarli accessibili a tutti.
11.05.'08