Questioni di ruolo

La caccia | Trasmessa il: 03/07/2004



Mi sono quasi commosso, giorni fa, a leggere che Bertinotti, nel motivare la sua svolta pacifista al convegno veneziano del suo partito, si è rifatto esplicitamente al pensiero di Aldo Capitini.  Mi sono commosso perché ho sempre considerato Capitini uno dei miei maestri e ricordo benissimo i tempi in cui il nome di quel mite pensatore di Perugia (che non era, checché ne pensi il cronista di “Repubblica” che ha riportato la notizia, la “storica guida del movimento pacifista cattolico”, visto che una delle sue ultime campagne è stata quella per l’apostasia generalizzata) lo conoscevano in quattro gatti, tre dei quali pensavano che fosse matto da legare.   Il fatto che il suo ricordo e la sua dottrina circolino ancora nella sinistra, trentasei anni dopo che ci ha lasciati, rappresenta un piccolo miracolo, quali che siano le motivazioni di chi li ha voluti recuperare, e ammetterete che di qualche miracolo, grande o piccolo, abbiamo tutti bisogno.
        Non mi sono affatto commosso, invece, nel leggere le recenti invettive anticlericali del ministro Bossi.  Vedete, anticlericale lo sono anch’io, anche da prima di sentir parlare di Capitini, e non potrei essere più convinto dell’opportunità, se non proprio di rimettere i cardinali a piedi scalzi, che è faccenda interna alla chiesa e in sé non mi interessa, almeno di orbarli di quel 18 per mille che la chiesa come organizzazione lucra sulle tasse dei cittadini, compresi buona parte di quelli che non hanno la minima intenzione di destinarle i propri contributi.  Ma che a proporre tale sacrosanta decurtazione sia il leader massimo di un partito di governo, complice in tutto delle nefandezze che contro la laicità dello stato quel governo ha compiuto, dai finanziamenti alla scuola privata al voto sulla fecondazione assistita, mi ha innervosito un po’.  Mi rendo conto che chiedere un po’ di coerenza a Bossi è impresa disperata, ma che la politica italiana, anche al livello di una destra becera come la sua, possa consentire una tale raffica di parole in libertà, che volete che vi dica, continua a sembrarmi disdicevole.
        E, a proposito di parole in libertà, spero non vi siate dimenticati di quelle di Berlusconi una decina di giorni fa sullo “stato di polizia”.  Parlava, il nostro, in sede non ufficiale, sul marciapiede davanti a palazzo Chigi, e si considerava – credo – più il presidente onorario di una squadra di calcio vessata da inquirenti indiscreti che il capo di un governo regolarmente dotato di un ministro degli interni, ma questo non gli impediva di rasentare, con quelle affermazioni, il delirio.   Che nel sistema vigente non manchi qualche elemento di stato di polizia mi sembra dolorosamente esatto, visto che è ancora in vigore la legge Reale e che possono succedere episodi come quelli di piazza del Plebiscito, di Bolzaneto e della scuola Diaz, ma che a denunciarlo sia il presidente del consiglio in carica resta un notevole esempio di schizofrenia applicata, nel senso che a chi altri vada addebitata la relativa responsabilità non è facile capire.   Ma visto che il suo ministro delle riforme si permette dei toni e delle parole che meglio si addirebbero a un leader dell’opposizione, il presidente deve aver pensato di poter fare altrettanto anche lui.  In fase pre-elettorale, com’è noto, tutto fa brodo.
        Vi parlavo, poco fa, di coerenza.  In politica, naturalmente, c’è coerenza e coerenza.  Nulla vieta, per esempio, di cambiare idea su qualche questione, anche di grande importanza teorica.  Nel caso che vi citavo di Bertinotti, per esempio, il suo attuale pacifismo nonviolento è, in un certo senso, incoerente con le precedenti posizioni marxiste leniniste (anche se, a dire il vero, il segretario di Rifondazione è sempre stato un politico ideologicamente aperto), ma è un’incoerenza, quella, che nessuno potrebbe rimproverargli, in quanto frutto di un rispettabile, effettivo travaglio ideale e intellettuale.   Sui ruoli, naturalmente, il discorso è diverso.  Bossi e Berlusconi, per esempio, non hanno espresso travaglio alcuno.  Anzi, rispetto alla concezione del proprio ruolo, entrambi si sono manifestati coerentissimi.  Tutti e due si sono sentiti liberi di dire ciò che gli passava per la testa, senza preoccuparsi che fosse più o meno contraddittorio con la posizione che rivestivano, perché non ragionavano, e non ragionano, in termini di governo – che è una funzione, in regime democratico, legata a limiti ben precisi, con un sistema di controlli e garanzie e altre complicazioni del genere – ma in termini di puro potere.   Il loro, in realtà, è una specie di pericoloso gioco di ruolo.  Ritenendosi investiti di un’autorità illimitata dalla scelta fideistica dei loro seguaci, che Berlusconi identifica spesso e volentieri con l’intero paese, possono giocare impunemente qualsiasi carta ideologica, spendendo sul mercato della politica qualsiasi moneta si ritrovino in saccoccia, perché, tanto, il solo fatto che la giochino o la spendano loro la rende inesorabilmente falsa.
Questo significa, in ultima analisi, che in pericolo non è tanto la coerenza ideologica del sistema, che in Italia, si sa, è sempre stata piuttosto lasca, ma che lo sono i suoi fondamenti democratici e istuzionali.  Quando i potenti si mettono a straparlare, il problema non riguarda loro, purtroppo, ma tutti noi.  E che la reazione della sinistra, quando Bossi ha attaccato l’8 per mille, non sia stata di mandarlo illico et immediato a quel paese, ma di schierarsi unanime in difesa della chiesa e del papa, è una dimostrazione inquietante di quanto già siamo caduti in basso.

07.03.’04