Quello che resta

La caccia | Trasmessa il: 11/13/2011


    Quello che resta

    Se una cosa è fatta quando è fatta” diceva Macbeth nell'omonima tragedia di Shakespeare “tanto vale farla presto”. Si tratta, ne converrete, di un ottimo principio, che andrebbe raccomandato a chiunque, anche se il personaggio, nello specifico, se ne serviva per rafforzare il proposito di fare la festa al legittimo sovrano, in visita al suo castello. Peccato che non tutti, in questo mondo di lungagnoni, riescano a farlo proprio. Per esempio, l'ex presidente Berlusconi, del quale sottolineavamo ancora la settimana scorsa la tendenza a rinviare all'infinito le decisioni più urgenti, ha cercato di concludere la sua declinante carriera con un atto di procrastinazione totale, quelle dimissioni posticipate che sono costate al paese non ricordo più quanti punti di spread e quanti interessi supplementari sui titoli di stato. Ha dovuto ribattergli, con un gesto perfettamente simmetrico, il Grande Vecchio che sta sul Colle, che si è inventato la mossa, parimenti creativa, dell'incarico preventivo. Come risultato, negli ultimi giorni abbiamo avuto non uno, ma due capi del governo: l'uno formalmente in carica, ma sostanzialmente destituito da ogni potere, e preoccupato soprattutto di come organizzare la propria successione; l'altro affaccendato in vari contatti con i potenti della terra, nella compilazione di liste di ministri, nella stesura di programmi e simili, ma privo della minima investitura formale, se non vogliamo considerare tale la nomina, affatto simbolica, a senatore a vita.
    Sulla correttezza giuridica e costituzionale di tutto ciò, ci sarebbero da fare le più ampie riserve. Senza arrivare a dare ragione alla stampa del centrodestra, che ha parlato di colpo (o “colpetto”) di stato, non si può fare a meno di ammettere che le forzature sono state parecchie. Ma questa, diciamocelo, non è una novità. Da quando vige la seconda repubblica, ammesso che di qualcosa del genere si possa parlare, si discute molto sula nostra carta costituzionale, ma, visto che le discussioni non concludono niente, si provvede tranquillamente, ogni volta che serve, a modificarla in via surrettizia. Se di colpo di stato si può parlare, si tratta di un colpo di stato permanente. Il Parlamento, grazie alla legge elettorale in vigore, è stato spogliato di ogni potere. Il capo del governo, da Presidente del Consiglio dei Ministri qual era – una figura, dunque, di primus inter pares – si è autoinsignito del titolo e delle funzioni di Premier e per di più, grazie al semplice espediente di inserire il nome dei vari candidati nei simboli elettorali sulla scheda, gli si è conferito il diritto di vantare una investitura diretta da parte dell'elettorato che nessuna norma positiva gli ha mai conferito. I presidenti delle giunte regionali, per non essere da meno, sono stati promossi dalla voce pubblica al rango di governatori. E al vertice del sistema, il capo dello stato ha via via ampliato a dismisura i propri poteri, costringendo i costituzionalisti amici ad autentiche acrobazie per giustificare, di solito in nome della eccezionalità della situazione, i suoi interventi. Provate a chiedervi cosa resta, alla fin fine, della repubblica parlamentare immaginata dai padri costituenti. Ne resrta ben poco, senza però che nessuno, salvo qualche eccentrico, si sia preoccupato di sostituirla con un sistema altrettanto coerente.
    Finché la barca va, di questo bailamme istituzionale ci sentiamo in qualche modo autorizzati a non preoccuparci. Oltretutto, non ha troppa importanza sapere in base a quali procedure si scelgono i governanti, quando i governanti, quali che siano e in qualsiasi modo siano eletti, non hanno altro potere che quello di eseguire degli ordini che vengono dal di fuori, come, nel caso presente, farà senza battere ciglio anche il carismatico Monti. Ma l'eccezionalità non può durare per sempre e da questo bordello finiremo, in un modo o nell'altro, per uscire. E il rischio cui ci troviamo davanti non è solo quello di uscirne con le ossa rotte e l'economia a brandelli, ma di trovarci un sistema politico dissestato, incapace di funzionare e refrattario a qualsiasi ragionevole intervento di razionalizzazione. Oggi, per esempio, c'è della gente che dice che, nello stato in cui siamo, sotto l'attacco dei mercati e con l'incubo del fallimento, non possiamo permetterci le elezioni. E non è gente qualsiasi: a dirlo sono statisti eminenti, leader autorevoli, giornalisti di grande influenza. Lo ho sentito dire, se non era una allucinazione, persino dal presidente della Camera. Ma cosa significa che non possiamo permetterci le elezioni? I cittadini di quale altro stato democratico sarebbero disposti, in nome delle difficoltà contingenti, a rinunciare al diritto di ricorrervi quando necessario? Quando le elezioni servono – e non si può negare che oggi, con tutte le trasformazioni più o meno disonorevoli del quadro parlamentare, in Italia servirebbero proprio – le si fanno, e se la cosa comporta delle difficoltà aggiuntive, vabbé, le si affrontano. Sarà sempre meglio che affrontare la crisi con un parlamento non rappresentativo, un governo prenominato e un'agenda politica imposta dall'estero. Naturalmente bisogna fare in fretta. Ma questo, come dicevamo all'inizio, è appunto il problema.

    13.11.'11