Quello che non si fa per la pace

La caccia | Trasmessa il: 02/29/2004



Chissà chi glielo ha fatto fare, a Piero Fassino, di sollecitare, sul tema dei soldati italiani in Iraq, un’intervista a quei malignoni del “Manifesto”, che non soltanto hanno scritto nero su bianco, l’altro ieri, che l’intervista era stata – appunto – sollecitata, una cosa che di solito non si fa, ma che, come se non bastasse, l’hanno impostata e condotta in modo da fargli fare la figura dell’allocco perfetto.  Che è, in definitiva, un po’ ingiusto, perché probabilmente il segretario dei DS, da bravo piemontese crapadura qual è, era semplicemente convinto di avere ragione.
In effetti qualche ragione, fatta la debita tara, gliela possiamo riconoscere persino noi.  È vero, per esempio, che il governo, presentando la richiesta di rifinanziamento della spedizione in un pacchetto unico con tutte le missioni militari in corso, comprese le operazioni di peace keeping promosse a suo tempo dall’Ulivo, ha fatto quella che, in termini strettamente parlamentari, non si può definire altrimenti che una puttanata.  Ed è vero che l’idea di reagire a quella puttanata rifiutandosi, per protesta, di partecipare al voto poteva sembrare allettante.  Anche perché (Fassino non lo ha detto, ma tanto lo sanno tutti) una simile scelta avrebbe permesso di evitare una rottura con quelli della Margherita e un’altra cosa che tutti sanno è che se DS e Margherita non riusciranno a restare attaccati l’una agli altri come le due valve di un’ostrica le speranze di liberarsi del governo Berlusconi prima del 2036 sono davvero scarsine.  Che di fronte a una serie di proposizioni tanto ragionevoli e ovvie qualcuno continui ad accusare il principale partito della sinistra di leso pacifismo e di scarso impegno sulla questione irakena doveva e deve sembrare, al buon Fassino, non che ingiusto, incomprensibile.
        Eppure, è difficile sfuggire all’impressione che, nella scelta di non votare no a quella missione, per quanto ragionevoli siano le considerazioni di cui sopra, ci sia qualcosa che, in un modo o nell’altro, non funziona.  E non solo perché per battere Berlusconi l’unità con la Margherita non basta, ma bisogna aggiungerci anche quel tanto o poco di forze che, a sinistra, a non votare no non ci stanno e con le quali, se non si vuole mandare tutto in malora, sarà bene cercare di raggiungere prima o poi un ragionevole compromesso.  Forse la motivazione è più elementare.  Forse sta tutta nella considerazione per cui la differenza tra pace e guerra è così importante che non si è mai riusciti, per quanti tentativi siano stati compiuti in merito, a mescolare i due termini.  Che nessuno è mai stato capace, in particolare, di ottenere la pace con le missioni militari, in qualsiasi modo e in qualsiasi lingua le abbia chiamate.  Come dimostra il fatto che le missioni premurosamente spedite a suo tempo in Afghanistan, in Bosnia, in Libano,  in Somalia, nella regione dei grandi laghi e chissà dove altro, per quanto organizzate in pieno accordo con tutte le possibili norme del diritto internazionale e condotte, magari, sotto l’egida e le insegne delle Nazioni Unite, non hanno mai contribuito a portare un briciolo non dico di pace, ma di tranquillità in quei travagliati paesi.
        Dire che in Iraq non bisognava andarci, ma ormai ci siamo e non si può sbaraccare tutto da un momento all’altro – naturalmente – è solo una banalità.  Il fatto è che dai conflitti si esce (come ha dimostrato, nel suo piccolo, il caso recente di Cipro) quando si dà ai diretti interessati la possibilità di risolvere i propri problemi in modo diverso che con le armi.  Un’altra banalità, forse, ma una di quelle su cui chi non si vuol limitare a ripetere alla pappagallo le vecchie massime militaresche del si vis pacem potrebbe fare, ogni tanto, lo sforzo di riflettere.

29.02.’04