Quello che Ippocrate non avrebbe fatto

La caccia | Trasmessa il: 02/08/2009


    Non so se ricordate anche voi quella vecchia (e stupida) barzelletta che circolava qualche anno fa, quando la cronologia la rendeva, se non credibile, almeno plausibile. Hitler non è morto: è riuscito a fuggire dall'inferno di Berlino e si è rifugiato, con pochi fedeli, in un angolo imprecisato del pianeta. Lì a un certo punto lo raggiungono i rappresentanti della destra internazionale. Sono latori di una richiesta: non ne possono più della democrazia e altro non desiderano che il Führer riprenda il suo posto e li guidi in un'ultima lotta alla vittoria finale. Lui, dapprima, non è tanto d'accordo: si sente vecchio, teme che la sua ora ormai sia passata, non vuole azzardarsi a lasciare il rifugio. Ma gli altri tanto dicono e tanto insistono da fargli cambiare idea. “Va bene, ragazzi,” si arrende il capo nazista “mi avete convinto. Si ricomincia. Ma, mi raccomando: questa volta, cattivi!”

    Di Ippocrate di Coo, il fondatore della medicina greca, non sappiamo praticamente nulla. Scarse sono le informazioni sulla sua vita, aleatoria l'identificazione delle sue opere all'interno del corpus degli scritti tramandati sotto il suo nome e praticamente impossibile, quindi, è la ricostruzione della sua dottrina. Ci si sono arrabattati generazioni di filologi, dando vita a una vera e propria “questione ippocratea”, ma l'unico risultato sicuro che ne è sortito, probabilmente, è quella “rassegnazione a ignorare” che raccomandava Werner Jaeger. Quello del più grande medico antico resta per noi solo un nome,sotto il quale supponiamo che si riassuma il pensiero e la prassi di più generazioni di studiosi.
    Di una cosa, tuttavia, siamo sicuri. Quell'elusivo taumaturgo non avrebbe mai fatto la spia. È a lui, infatti, che si può far risalire con sicurezza il concetto di “segreto professionale”: lo si trova prescritto, nero su bianco, in quel Giuramento che, se non è frutto diretto dalla sua penna, era riferito comunque a lui nella pratica della sua scuola e che fino ai nostri giorni (anche oggi, credo) gli aspiranti medici sono sempre stati tenuti a sottoscrivere al compimento dei loro studi. “Tutto ciò che vedrò e ascolterò nell'esercizio della mia professione” recita, tra l'altro, quel testo “lo tacerò, considerandolo cosa segreta” e specifica che l'impegno vale anche per quanto appreso “anche al di fuori della mia professione nei miei contatti con gli uomini”. Che è un testo abbastanza esplicito e comprensivo e fa parte da allora della deontologia medica. È importante perché, al di là dell'obbligo della riservatezza, afferma l'autonomia etica di quell'attività, imponendo a chi la esercita l'obbligo di tener conto soltanto delle necessità (e della volontà) del paziente e non dei desideri e delle esigenze altrui. In questo senso può avere un significato più generale: ricorderete come Brecht, nelle ultime battute della Vita di Galileo, auspicava che qualcosa del genere potesse svilupparsi tra gli scienziati, al fine di rendere la ricerca scientifica indipendente dal potere e dalla sua capacità di perversione. Una illusione, naturalmente, e presentata per tale, ma allo stesso tempo il riconoscimento di una necessità che in quegli anni del primissimo dopoguerra si presentava come improrogabile.

    L'aggettivo “cattivo” deriva dal latino captivus, che, in quanto connesso con il verbo capio, “prendere”, significa “prigioniero”: un significato che sopravvive in italiano nell'espressione “in cattività”. Il passaggio dal valore originario del termine a quello attuale è frutto di uno di quegli slittamenti semantici che caratterizzano l'evoluzione delle lingue e non è, tutto sommato, impossibile da spiegare. Più interessanti, forse, sono certe modalità del suo impiego contemporaneo. Anche se ha preso, in pratica, il posto del latino malus, “malvagio”, “cattivo” non indica, nell'uso corrente, una vera e propria malvagità. Non per niente lo si riferisce soprattutto ai bambini e, quando lo si applica a se stessi, comporta in genere una sfumatura di autoindulgenza, il riconoscimento preventivo di una necessità che ci costringe ad agire in modo tale da meritare quell'epiteto. Espressioni come “oggi mi sento cattivo” o “non costringermi a fare il cattivo” contengono già in sé, senza la necessità di ulteriori specificazioni, la giustificazione di chi parla.

    Anche il governo italiano, per bocca di uno dei suoi più autorevoli rappresentanti, ha espresso la volontà di essere “cattivi”. Cattivi verso quegli immigrati che, pur presenti in gran copia nel paese e fattori essenziali della sua economia, vengono considerati da molti come corpi estranei e responsabili, per di più, delle peggiori nefandezze. In quel contesto, essere “cattivi” significava rinunciare a ogni indulgenza e adibire nel trattare la questione ogni possibile severità. Ci sono, tra i partiti di governo, forze che la pensano in quel modo, né si può dire che manchi loro il consenso dell'elettorato. Tanto è vero che quell'auspicio si è subito tradotto in provvedimenti di legge che, quanto a cattiveria, non lasciano a desiderare: quei poveracci saranno ulteriormente schedati, sottoposti al controllo di organizzazioni volontarie costituite ad hoc, vessati sul piano economico mediante l'imposizione di un balzello particolarmente odioso. E con la sospensione, per quanti tra loro sono sprovvisti di documenti, del giuramento di Ippocrate, nel senso che ai medici cui i clandestini si rivolgeranno per essere curati, sarà fatto obbligo di denunciare la loro condizione a chi di dovere, con successivo, inevitabile, allontanamento dai nostri confini. Che non è, se ci pensate, una semplice misura di ordine pubblico o un provvedimento amministrativo severo, ma necessario: è l'abrogazione, nei confronti di parte della popolazione, di un diritto civile riconosciuto, anzi, di uno dei capisaldi dell'etica sociale corrente. La cosa è talmente enorme che c'è chi dubita che possano trovarsi, in Italia, dei medici disposti ad adeguarsi a queste prescrizioni, ma visto che tra la teoria e la pratica intercorre un abisso e che a tutto ci si può abituare, staremo a vedere. Quello che è certo è che in quel provvedimento non c'è cattiveria, nel senso che abbiamo visto, e neanche pura e semplice malvagità: c'è la volontà deliberata di mettere un gruppo di persone nella impossibilità di vivere nel nostro paese, negando loro, in definitiva, la possibilità di ricevere, se malati, le cure necessarie. Perché se è ovvio che se il medico mi può far espellere io me ne terrò alla larga e cosa possa derivare da un simile atteggiamento non è difficile immaginarlo.

    E Hitler che c'entra? Niente, non c'entra niente: quella era solo una barzelletta. Questa, purtroppo, è la realtà.

    08.02.'09

    Nota

    Cito il Giuramento dalla vecchia edizione di Ippocrate, Opere, a c. d. Giuliana Lanata, Boringhieri, Torino, 1961. Nello stesso volume, nell'Introduzione, a pag. 15, si trova la citazione dello Jaeger.