Il papa è malato e la prima notizia del telegiornale riguarda
il suo stato di salute. Il conduttore dell’edizione di mezza sera
– siamo su RAI 3, ma potrebbe essere qualsiasi altro canale – ci guarda
con aria compunta e ci comunica che la crisi è stata superata. “E
adesso” aggiunge con un guizzo di allegria “ vi passo il nostro … –
il nome e il cognome francamente non li ricordo – che se ne sta al buio
e al gelo fuori dal Policlinico Gemelli”. E in diretta dal marciapiede
antistante l’ospedale appare sullo schermo il solito giornalista ben
pettinato, con il suo bravo giaccone tecno dal bavero rialzato, che, sbuffando
nuvolette di vapore a prova di quanto freddo faccia davvero laggiù – ci
conferma che il papa, grazie al cielo, sta meglio.
Perché quel poveretto
(il giornalista, dico, non il papa) debba sottoporsi a tanto disagio non
è, a dire il vero, chiarissimo. Il Gemelli, con tutti i pezzi grossi
che è uso ospitare, è indubbiamente provvisto di una sala stampa ben riscaldata.
Se quell’inviato se ne sta fuori al buio e al gelo, è perché ha
deciso, lui o chi per lui, che è meglio così. Suppongo che si tratti
di una scelta dimostrativa, nel senso che serve a testimoniare come nessun
ostacolo e nessun disagio possa impedire ai nostri intrepidi colleghi di
fare il loro dovere.
Già, ma di che dovere
esattamente si tratta? Di quello di dare notizie, certo, ma la notizia
importante, quella che il papa sta meglio, ce l’ha già data il conduttore
da studio e di altro, in termini informativi, non abbiamo bisogno. Per
quanto il meschino resti a barbellare al buio, non potrebbe aggiungervi
nulla di significativo. Il papa sta meglio e se, Dio non voglia,
sopravvenisse una crisi, i medici certo non si precipiterebbero in strada
a comunicarlo in diretta (almeno si spera). Eppure, in questo preciso
momento, sui televisori di tutto il mondo, una quantità di giornalisti
di entrambi i sessi, variamente agghindati e debitamente compunti, stanno
annunciando in diretta da analoghe postazioni all’aperto che non è successo
niente.
Per l’occasione, i colossi del ramo hanno fatto uno sforzo
speciale. La CNN, a quanto riferisce “Repubblica”, ha mandato da
Londra venti persone in rinforzo della redazione romana. La BBC ne
ha in loco trentacinque. È giunta una squadra dalla Grecia e una
dal Borneo. Ap.com, che per prima, sembra, ha dato in diretta la
notizia del ricovero, ha schierato dodici elementi aggiuntivi e, del resto,
non è un mistero che tutte le televisioni hanno affittato da anni ogni
tetto e terrazza con vista sul Vaticano (il presidio RAI è a Borgo Angelico,
a due passi da San Pietro). “E si dice che i principali network
americani abbiano affittato da tempo immemorabile l’accesso al satellite
per i primi dieci minuti di ogni ora, per poter essere in grado di trasmettere
subito.”
Siccome anche i giornalisti,
ogni tanto, provano un po’ di vergogna, né l’articolista di “Repubblica”
né altri giornali specificano che cosa debba fare tutta questa brava gente.
L’unico commentatore che ha azzardato un’ipotesi in merito è stato,
che io sappia, Filippo Gentiloni sul “Manifesto”, che notoriamente non
conta. Ma, tanto, che cosa stanno facendo lo sappiamo tutti: stanno
aspettando che l’augusto paziente, se non oggi domani, e se non domani
qualche altro giorno, tolga definitivamente il disturbo. La gara
tra i network, quella che giustifica affittanze di terrazzi e prelazioni
di satelliti, è a chi sarà il primo ad annunciare al mondo che il papa
è morto. E anche se la crisi, per ora, è passata è poco ma sicuro
che da lì, finché il pontefice sarà ricoverato al Gemelli, non li schioda
nessuno.
Fa un po’ impressione
– anche in questi tempi duri – l’idea di tutta questa gente in trepida
attesa della morte di un vecchio malato, come gli avvoltoi nelle vignette
o gli eredi cattivi in un feuilleton ottocentesco. E visto che morto
un papa se ne fa notoriamente un altro, pensate quante altre persone stanno
aspettando con altrettanta ansia, quali preoccupazioni circolino
ai vertici della Chiesa, che trame si stiano tessendo, quali alleanze si
stringano, che promesse vengano scambiate: in Vaticano, si sa, la campagna
elettorale è in corso da anni. Ma in Vaticano, in fondo, fanno il
loro mestiere e gli interessi dei vari prelati si possono considerare legittimi.
Su quanto sia legittimo l’interesse della stampa e dei mezzi di
comunicazione, sul fatto che anche loro stiano facendo soltanto il proprio
mestiere, forse sarebbe giusto avere qualche riserva in più. Il diritto
alla privacy spetta a tutti, anche al papa, e per quanto concerne il pubblico,
la grande comunità dei fedeli, chi si interessa comunque alle cose di chiesa,
poco dovrebbe importare che riceva la notizia in diretta da un abbaino
con vista sui palazzi apostolici o più canonicamente attraverso un comunicato
dell’ufficio stampa del Vaticano, che certo non tarderebbe più di qualche
minuto.
La logica della informazione
spettacolo, ancora una volta, ha travolto quella della informazione informazione.
Da quel punto di vista, l’inviato al freddo sul marciapiede e i
suoi colleghi appostati sui tetti sono protagonisti allo stesso titolo
dell’uomo che giace malato all’ultimo piano. Una occorrenza luttuosa
quanto si vuole, ma naturale e, ahimè, affatto prevedibile ha assunto un
valore mediatico assoluto, a prescindere da ogni considerazione di opportunità,
coerenza o necessità informativa. L’obiettivo (non dichiarato)
è ancora una volta quello di spacciare l’inevitabile per imprevisto, l’ovvio
per sensazionale, a costo di passare sul cadavere del diretto interessato.
La “vera” notizia, quando sarà data, non sarà quella della morte
del papa, ma quella di chi ha dato la notizia della morte del papa, che
rappresenta, diciamolo pure, un bel caso di autoreferenzialità e di disinteresse
(per non dire disprezzo) per i propri compiti istituzionali.
Quanto al papa, bisogna dire che un po’ se l’è cercata.
Nella grande scommessa ideologica della sua carriera, ha giocato
fin dall’inizio la carta della immagine pubblica. Si è dato coscientemente
in pasto alle folle, con i suoi viaggi e i suoi messaggi, i suoi interventi
e le sue sofferenze, ha identificato così strettamente la funzione pontificale
con la persona (e il personaggio) di Karol Wojtyla da non lasciare
nessun possibile spazio alla discrezione. È il prezzo che oggi deve
pagare chiunque aspiri a una posizione di preminenza: lo fanno tutti, dall’ultima
delle veline al presidente degli Stati Uniti. Ma la bagarre di questi
giorni ci mostra come da quella posizione sia fin troppo facile precipitare,
riducendosi da soggetto a oggetto, da protagonista a comparsa, da potente
a vittima. Anche quello dell’informazione è un mercato e, come tutti
i mercati, è indicibilmente crudele.
06.02.’05