In questi venticinque giorni di guerra, mi è tornato spesso alla mente
l’Inferno di Dante. E non saprei neanch’io dirvi esattamente perché:
non è un testo cui sia particolarmente affezionato, anche se, tra liceo,
università ed esami vari, l’avrò letto non meno di quattro volte, e chissà
quante altre avrò cercato di farlo leggere ai miei studenti, né – soprattutto
– mi sembra che tra le tante terribili scene che vi sono descritte ve
ne sia qualcuna paragonabile agli orrori di una guerra moderna come quella
cui ci è toccato assistere in diretta, completa di lanci di missili sui
mercati, bombardamenti sugli ospedali e angherie varie sulle popolazioni
civili. Ma il sommo poeta, tutto sommato, scriveva nella convinzione
incrollabile di vivere in un mondo ideologicamente sottosopra, in cui era
vano cercare una coerenza qualsiasi tra i valori riconosciuti in teoria
(quelli che costituivano, dal suo punto di vista, la “civiltà”) e le
cose cui i suoi contemporanei concretamente badavano e da questo punto
di vista non è davvero difficile trovare, nel suo grande poema, un forte
accento di attualità. Certo, lui poteva permettersi di rimettere
le cose a posto, in un certo senso, assegnando terribili pene per l’eternità
a quanti pensava tralignassero dal retto sentiero, mentre a noi, in questa
epoca laica e deteologizzata, non è dato concederci una simile soddisfazione,
ma nulla ci vieta di chiederci, così, in confidenza, quale collocazione
avrebbe riservato, nel suo organizzatissimo aldilà, ai Bush, ai Blair,
agli Aznar e a quanti altri, in nome dei propri interessi personali e di
gruppo, hanno voluto ed eseguito il massacro.
I violenti contro il prossimo, come ricorderete,
sono sistemati nel primo girone del settimo cerchio: immersi nel sangue
bollente del Flegetonte, vengono saettati dai Centauri che galoppano lungo
le rive. A questo crudele contrappasso sono sottoposti, oltre che
i comuni assassini e ladri da strada, quelli che il poeta definisce “i
tiranni”, gente come Attila, Alessandro, Dionisio e quanti altri “dier
nel sangue e nell’aver di piglio”: una definizione che si adatta perfettamente
ai vari Saddam di questa terra, ma sembra in qualche modo inadeguata ai
leader del nostro Occidente, che, in effetti, dei veri e propri tiranni
non sono, nel senso che manca loro la fosca grandezza di un Attila e che
il potere di cui sanguinosamente abusano non se lo sono conquistati a proprio
rischio e pericolo, ma se lo sono visti assegnare da un elettorato accecato
da un turbinare di false promesse. Dante, naturalmente, non conosce
il peccato di “tradimento della democrazia” e la palude ghiacciata di
Cocito, comunque, non sembra la sede adatta per dei personaggi cui sarebbe
veramente di troppo onore la compagnia del conte Ugolino.
No. Ogni volta che mi tocca di vedere
Bush in televisione, con quel suo finto sorrisino doloroso, o le mie orecchie
sono ferite dalle dichiarazioni di Blair, o da quelle dei tanti politici
di prima o seconda schiera che li appoggiano, tutti sempre così seri e
compunti, con quel loro tono sempre smorzato e ragionevole, con le loro
giacche di sartoria, le cravatte sobrie sulla camicia bianca, la pettinatura
ben a posto e quell’aria così falsamente per bene, ogni volta che li sento
mentre svolgono il compitino del fine che giustifica i mezzi e dei morti
dicono che in fondo son pochi e comunque succede e poi non è colpa loro,
e la guerra l’hanno dovuta fare da soli, poveretti, perché non ci stava
nessun altro, ma le Nazioni Unite avranno comunque un ruolo “vitale”
nella ricostruzione e nessuno vuol occupare niente, ci mancherebbe, anche
se “sarà inevitabile prevedere un ruolo direttivo dei militari per completare
il disarmo”, e delle cannonate ai giornalisti dicono che gli dispiace
e di fronte ai saccheggi parlano di esultanza popolare, be’, che volete
che vi dica, quando sento queste argomentazioni io me li vedo tutti insieme
in un posto preciso. La collocazione che davvero si addice a costoro
è quella della sesta bolgia dell’ottavo cerchio, dove si consuma il destino
finale degli ipocriti. È lì che starebbero davvero bene, a girare
eternamente in tondo in compagnia di Catalano e Loderingo, sotto il peso
di quelle cappe di piombo che cancellerebbero una volta per tutte la falsa
immagine che tanto si studiano di dare di se stessi. Sarebbe la destinazione
appropriata per chi si sforza sempre di apparire diverso da quello che
è, per chi nasconde le proprie cupidigie private sotto la luce dell’utile
pubblico, per chi affetta pietà per le vittime ma non ha mosso un dito
per evitarle e della tragedia della guerra ha cercato, senza vergogna,
di dare una versione quanto più possibile asettica e necessitata. E
siccome all’Inferno di posto ce n’è, è lì che accanto ai massimi esponenti
di quel potere globale che venerano tanto potrebbero trovare, chissà, una
degna sistemazione anche i molti esponenti del nostro governo, i Martino,
i Frattini, i Giovanardi e gli altri figuri che, con la complicità dei
vari reggicoda televisivi, non ci hanno risparmiato, in questi giorni difficili,
le loro compunte falsità.
Non mi riferisco, naturalmente, a tutti i membri del nostro governo. Berlusconi,
per esempio, se pure di quell’arte potrebbe essere considerato maestro,
oggi come oggi del collegio degli ipocriti non ha titolo per fare parte.
È troppo evidentemente destinato al tristo corteo degli ignavi, la
schiera di coloro che non hanno voluto prendere posizione e, di conseguenza,
sono esclusi tanto dalla gloria dei cieli quanto dai tormenti dei gironi
infernali, nei quali la loro presenza, che darebbe ai dannati “seri”
qualche motivo di vanto, nel senso che loro, almeno, hanno peccato, sarebbe,
in un certo senso, controproducente. A dimostrazione del fatto che
anche se ai tempi di Dante la logica dei sondaggi era affatto ignota, il
grande poeta conosceva benissimo il tipo umano di chi a essa unicamente
si affida e non si peritava di esprimere in merito un giudizio che più
preciso di così non avrebbe potuto essere.
13 aprile 2003