C’è un leader politico, del quale mi
guarderò bene dal rivelarvi il nome, per non correre il rischio di influenzare,
sia pure in modo allusivo e surrettizio le vostre libere scelte, che mi
guarda dal suo manifesto (no, non è Berlusconi, ma, par condicio a
parte, non possiamo parlare soltanto di lui) e mi chiede se decido io o
il Vaticano, invitandomi, in seconda battuta, a liberare il sesso, la scienza,
la vita. Si tratta di un’esortazione impegnativa e, francamente,
non saprei dirvi quanto, in vita mia, abbia saputo fare di persona
per adempirvi, ma, rispetto alla domanda, sento di avere la coscienza a
posto. Sull’opportunità di non lasciar guidare le mie scelte dalla
gerarchia della Chiesa cattolica avevo le idee chiarissime fin da quando
quel leader giocava con le bambole o, com’è più verosimile nel suo caso,
con i soldatini. Per cui faccio un cenno di assenso con il capo,
mi compiaccio che qualcuno abbia introdotto, in una campagna elettorale
grigia come quella che stiamo vivendo, un elemento forte – perché quanto
a forza, lo ammetterete, nel nostro paese il Vaticano non scherza – e
proseguo per la mia strada.
Poi
svolto l’angolo ed ecco, su un manifesto quasi identico a quello di prima,
c’è ancora quella faccia lì. Stavolta mi chiede perentoriamente
se a decidere sono io o il sindacato. Il problema, nel caso, è quello
di liberare il lavoro, l’impresa e, naturalmente, la vita. Lì per
lì, la mia reazione è più o meno la stessa: forse non saprei come
fare a liberare il lavoro e l’impresa, per non dire della vita, ma quanto
alla necessità di decidere, sempre e comunque, per conto mio, non posso
che essere d’accordo. Con il sindacato, a dire il vero, ho trescato
più che con il Vaticano, ma è roba di tanto tempo fa. E me ne vado
cercando di non posare lo sguardo sui tanti fotocolor di aspiranti “volti
nuovi” della politica che in questi giorni di primavera fioriscono su
tutti i cantoni.
È
solo dopo un po’ che comincio a chiedermi cosa ci sia in comune, dopotutto,
tra il Vaticano e il sindacato. Sì, sono due parole di quattro sillabe,
che occupano, più o meno, lo stesso spazio, permettendo un’analoga impostazione
grafica ai due manifesti, e le due organizzazioni cui i termini si riferiscono
esercitano entrambe una certa influenza nella vita del paese, ma, a parte
questo, si tratta di strutture, con tutta evidenza, piuttosto diverse.
Diverse per funzione, perché la sfera della vita religiosa nel mondo
moderno non ha, dopotutto, un gran che a che fare con quella economica.
Diverse per organizzazione, perché alla piramide gerarchica della
chiesa nessun corpo profano può contrapporre un’analoga compattezza. E
diverse – naturalmente – per peso sociale, nel senso che di fronte al
Vaticano si prostrano i potenti del mondo (e quanti in Italia aspirano
a essere tali), mentre il sindacato, di questi tempi, fanno tutti a gara
a chi con maggior entusiasmo lo prende a legnate. Sì che se l’invito
a non lasciar decidere al Vaticano si spiega benissimo e quello di non
delegare le proprie decisioni al sindacato ha una sua indubbia logica,
l’esortazione a opporsi a tutti e due può suscitare, come dire, qualche
perplessità interpretativa. È come se fosse, se posso permettermi
il termine, una proposizione vagamente sbilenca.
Mi
direte che queste sono sofisticherie. Entrambi, Vaticano e sindacato,
sono, in un certo senso, e parlando con tutto il rispetto dovuto, degli
enti intermedi. La Chiesa è un’organizzazione collettiva che si
interpone tra l’individuo e una Realtà superiore con cui, a suo avviso,
l’individuo non è in grado di rapportarsi cn le sue sole forze. Si
propone, per così dire, di gestire i rapporti dell’individuo, più o meno
consenziente, con il Divino. E il sindacato, naturalmente, intende
rappresentare i lavoratori di fronte al padronato, che, pur avendo uno
statuto esistenziale meno problematico di quello del Padre Eterno, è pur
sempre un’entità alla quale non è conveniente contrapporsi da soli.
Né
Dio né padrone, dunque, come nel vecchio slogan anarchico? Be’,
no. Né papa né sindacato, piuttosto. In questa doppia negazione,
non ci vuol molto a capirlo, i padroni non c’entrano. D’altronde
non è il caso di stupirsene: a negare i padroni, in questa campagna, finora
non ci ha provato proprio nessuno.
C. Oliva, 08.04.’01