Pulizie urbane

La caccia | Trasmessa il: 05/31/2009


    Sono parecchi anni che non mi capita di metter piede a Roma e non saprei dirvi, così, se la capitale sia davvero tanto malconcia, “per scritte sui muri e lordura delle strade”, da ricordare “più una città africana che europea”, come ha detto, con simpatico, inconscio razzismo, il capo del governo in un'intervista recente. Non so neanche se le scritte e la lordura in questione siano di produzione recente o risalgano – come ha in seguito precisato l'illustre statista per placare un sindaco giustamente imbufalito – ai tempi bui dell'amministrazione di centrosinistra. Così a occhio, naturalmente, la pezza si direbbe peggiore del buco, nel senso che se Alemanno in dodici mesi non è ancora riuscito a spazzare dalle pubbliche vie il rusco lasciato dal suo predecessore, non si capisce bene cosa ci stia a fare in Campidoglio, ma la questione forse è un poco più complicata. Di fatto, la sporcizia urbana ha una certa spiccata tendenza a manifestarsi in forma bipartisan, come ben sappiano noi milanesi, sottoposti da più tempo di quanto non ci piaccia ricordare a giunte e sindaci di centrodestra e che pure, quanto a scritte sui muri e rumenta per le vie non abbiamo certo di che lamentarci. Il fatto è che i sindaci delle grandi città, da quando, con l'elezione diretta, sono diventati dei personaggi di fama e rilevanza nazionale, si sentono troppo importanti per occuparsi di banalità quali la pulizia dei marciapiedi. Le loro energie sono tese a quegli interventi che garantiscono, come si dice, un adeguato ritorno di immagine, tipo il restauro della Scala (se vogliamo chiamarlo così) per Albertini e l'Expo per la Moratti: eliminare cartacce e barattoli o cancellare le scritte sui muri, per non dire delle buche nell'asfalto e dei tombini che non scaricano, è un problema di normale amministrazione e di normale amministrazione né loro né i loro assessori amano particolarmente occuparsi. Sono impegni, alla fin fine, che richiedono un minimo di competenza, nonché una applicazione assidua, faticosa e poco glorificante, per cui la tentazione prevalente è quella di affidarli a qualche funzionario più o meno capace o, meglio ancora, di esternalizzarli, che costa anche meno e tanto se c'è qualcosa che non funziona si può sempre dire che è colpa degli altri. E comunque l'accumulo di una certa quantità di sporcizia va messo nel conto ovunque si accentrino e interagiscano degli esseri umani e quello di una città perfettamente pulita è più un ideale da proporsi che una realtà da poter esperire nel concreto.
    In materia, comunque, è sempre meglio adibire una certa cautela. Perché, a pensarci bene, c'è sporcizia e sporcizia: c'è quella prodotta dal normale viavai della vita associata, sulla cui natura di detrito residuale da rimuovere quanto prima esiste un consenso praticamente unanime, e c'è quella – per così dire – più spiccatamente ideologica, la sporcizia che uno percepisce per tale in quanto non si accorda con le proprie aspettative di come debba essere un complesso urbano. È una sporcizia, per intenderci, da degrado o supposto tale, tipica delle zone della città in cui vive la gente diversa da noi o in cui vorremmo vivere noi se non ci stesse già qualcun altro che a nostro giudizio starebbe meglio altrove, meglio se a una certa distanza: la disordinata decadenza, un tempo, dei centri storici abbandonati e malfamati o la sciatteria delle brutte periferie operaie, lo scarso appeal, oggi, dei quartieri di nuova immigrazione, dei crogioli multietnici, delle zone industriale dismesse... di tutte le aree, insomma, che per un motivo o per l'altro non rispondono ai modelli di chi sta al potere o ambirebbe starci.
    Di far pulizia in questo tipo di aree, stiamone pure sicuri, le nostre autorità cittadine, dell'un colore e dell'altro, sono e saranno sempre parimenti ansiose. Nulla e nessuno riuscirà mai a impedirgli di applicare la vecchia formula dello sgombera, abbatti e ricostruisci, la fregola di spianare a forza di ruspe la “bruttezza” del tradizionale e del diverso per trapiantarvi i modelli della nuova metropoli globalizzata, con le sue torri di vetro, i suoi lotti edificabili ad alto prezzo, il suo design standardizzato. Al posto degli operosi formicai di un tempo, con i loro mille problemi e la inquietante vitalità del loro mix sociale, il moderno reggitore delle città tende a imporre inesorabilmente lo schema del “bel” quartiere esclusivo (e, naturalmente, pulito): edifici tali da fare, per qualche aspetto, notizia (come un grattacielo storto o avvitato su se stesso), appartamenti di pregio, verde esornativo, magari verticale, visto che lo spazio necessario per farlo crescere in piano costa, ampie aree riservate per lo shopping e per la movida e per quelli che tutto ciò non si possono permettere, ma a lavorare per noi devono pur venire, siamo persino disposti a organizzare i trasporti perché se ne vadano a vivere altrove.
    Per chi auspica opere di pulizia di questo genere, ogni pretesto, ovviamente, è il benvenuto, si tratti pure di una catastrofe o di un terremoto cui rimediare. Ma più appetibile ancora, naturalmente, è quell'altro genere di moderna catastrofe rappresentata oggi dagli “eventi” internazionali. Pensate alla funzione basilare che hanno avuto i giochi olimpici per la banalizzazione gentilizia – quella che in inglese si dice, se non mi sbaglio, gentrification – di intere aree di Barcellona, di Atene e (mi dicono) di Pechino. E pensate alla ostinazione con cui la nostra brava Moratti, sorda a ogni richiamo del buonsenso, si aggrappa con le unghie e con i denti, crisi o non crisi, ritardi o non ritardi, al suo faraonico progetto di Expo. E sfido: dal punto di vista di quelli come lei una città non è tanto un luogo in cui vivere, lavorare e produrre cultura, quanto un infinito, potenziale cantiere e l'evento è l'occasione di potenziare senza freni l'attività edilizia: se poi i nuovi edifici non avranno abitanti, o li si spianerà al suolo o si farà venire da fuori qualcuno disposto a popolarli. Il progetto, in un certo senso, è paradossale, anzi, è ostensibilmente folle, ma in ogni follia c'è una logica e se la logica, come in questo caso, è quella del profitto, non ci sono né obiezioni né proposte alternative che tengano, tanto è vero che a fare delle obiezioni o delle proposte alternative l'opposizione non ci pensa neanche e la sua unica preoccupazione è quella di non essere completamente esclusa dall'annunciato banchetto. Facciamoci forza, compagni, perché sarà un lungo inverno.

    31.05.'09