Pubbliche identità

La caccia | Trasmessa il: 01/31/2010


    C'era da aspettarselo: la proposta del governo francese di vietare, in terra d'Oltralpe, l'uso del burqa e di altre forme di velo integrale nei luoghi pubblici, ha subito trovato i suoi estimatori in Italia. I nostri governanti, quando si tratta di vietare qualcosa a qualcuno, non sopportano di essere secondi a chicchessia e se il divieto, poi, riguarda immigrati e/o minoranze, il loro entusiasmo si fa incontenibile. Così, la ministra Carfagna, che in teoria dovrebbe occuparsi di “pari opportunità”, ma evidentemente interpreta il mandato con una certa larghezza, si è dichiarata “assolutamente favorevole” a una legge come quella proposta in Francia, il capogruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, ha espresso il suo immancabile gradimento e gli onorevoli leghisti Borghezio e Castelli (quest'ultimo deve essere anche viceministro di qualcosa, di che non ricordo bene, probabilmente delle comparsate televisive) si sono schierati risolutamente con Sarkozy, la cui linea, hanno detto, è proprio la loro. In parlamento, d'altronde, sono depositate già quattro proposte di legge in materia e quelle della maggioranza, che equiparano l'uso del burqa a quello dei caschi e dei passamontagna, prevedono, per le renitenti, pene che possono giungere ai due anni di reclusione.
    Nessuno di costoro, naturalmente, ha riflettuto sul fatto che la proposta francese si inserisce in un quadro ideologico affatto diverso da quello del proibizionismo leghista. Burqa, niqab, chador e indumenti affini non vi sono considerati come strumenti di occultamento della propria persona – come i passamontagna, appunto – e il loro uso non è visto come un problema di ordine pubblico. Sono assunti come simboli di identità religiosa e la loro esclusione, pertanto, si spiega in un contesto di laicismo rigoroso, quale ben si addice a un paese in cui lo Stato è separato dalla Chiesa da oltre in secolo (una prospettiva che, se trasportata qui da noi, farebbe saltare le coronarie per l'indignazione al cardinale Bagnasco e a tutti i suoi fidi). Nella stessa prospettiva, in effetti, sono vietati anche tutti gli altri segnali identitari dello stesso tipo: crocifissi, stelle di Davide, kippah e chi più ne ha più ne metta. Il concetto è quello che, essendo la religione, qualsiasi religione, un fatto privato, non c'è alcun bisogno (e può essere, anzi, dannoso) esibire pubblicamente le proprie appartenenze e chiedere, magari, che l'esibizione comporti qualche trattamento particolare, che andrebbe ovviamente a scapito del valore base dell'eguaglianza. Anche su questo punto di vista, naturalmente, ci sarebbe da ridire, visto che in gioco ci sono anche degli altri valori e comunque va stabilito se l'imposizione alle donne di quei tristi oggetti sia davvero un'espressione di fede, l'ossequio a una supposta volontà divina, o non piuttosto la manifestazione di una concezione proprietaria del corpo delle proprie compagne, figlie e sorelle da parte dei maschi locali, ma visto che la giustificazione è comunque di tipo religioso, non si può far finta di ignorare questo aspetto del problema. In parole povere, non si può vietare il burqa e continuare a esporre il Crocifisso negli uffici pubblici, come le autorità italiane hanno dichiarato di voler continuare a fare, a costo di presentare ricorso contro la nota decisione in senso contrario della Corte europea dei diritti dell'uomo.
    L'unico a rendersene conto, sembra, è stato il ministro Frattini, per cui il cristianesimo è sì un pilastro dell'identità italiana, ma vietare il burqa sarebbe un errore, perché “la semplice proibizione, fuori da una politica più ampia, non risolve il problema”. Che è un modo, a dire il vero, di non pronunciarsi, visto che quale debba essere l'auspicata “politica più ampia” non lo dice, limitandosi a qualche banalità sulla necessità dell'integrazione sul territorio e del dialogo interreligioso e interculturale, ma qualcosa già è e peccato soltanto che quel ministro, nella compagine governativa, conti notoriamente un po' meno del due di picche. Neanche lui, in ogni caso, riesce a cogliere i termini della questione: esclude il divieto solo perché inefficace (“se si vieta qualcosa per legge, ci sarà sempre qualcuno pronto a ribellarsi) e non capisce che il problema ha una sua valenza, per così dire, assertiva, essendo dovere di un governo serio e democratico non tanto mettere al bando i comportamenti sgraditi e stop, quanto garantire i diritti dei singoli, badando al tempo che stesso che le donne islamiche (o d'altra appartenenza) possano portare il burqa se lo desiderano e se lo possano togliere se lo preferiscono, senza che a nessuno, uomo o donna, nella loro comunità o fuori da essa, sia lecito imporglielo. Certo, perché si giunga a tanto è necessario considerare gli immigrati d'ambo i sessi innanzi tutto come portatori di diritti, al pari di qualsiasi altro cittadino o residente, e aspettarsi questo da un membro del governo in carica è forse una pretesa eccessiva. Eppure sono loro che pretendono di essere liberali...

    Sembra tuttavia che i cittadini siano in qualche modo più liberali di loro. Lo desumo dal resoconto della mia amica Zita Dazzi, che ricordo timidissima studentessa, anni fa, sui banchi del liceo e che adesso che scrive su “Repubblica” deve aver acquisito un po' di faccia tosta in più. Così, si è lanciata in un classico esperimento di giornalismo militante: si è fatto prestare un burqa, lo ha indossato ed è andata in giro per Milano, annotandosi le reazioni della gente per poi riferirne sul suo quotidiano. Ha avuto qualche problema con i servizi pubblici, nel senso che non l'hanno lasciata entrare all'anagrafe, le hanno detto che non poteva prendere i libri a prestito alla Sormani e non le hanno permesso di consultare gli atti giudiziari alla cancelleria del tribunale, ma l'hanno sempre trattata con gentilezza e per strada, nei negozi e con la gente ha suscitato sì, qualche limitata manifestazione di curiosità, ma niente di speciale, né le è stata negata qualche espressione di simpatia. Insomma, ha incontrato delle reazioni “normali”, come era lecito attendersi dai cittadini di una città moderna e (abbastanza) evoluta. Come poi quei cittadini possano sopportare di essere governati dai cialtroni che stanno al potere... be', questo forse è il vero mistero.
31.01.'10

    Nota

    L'inchiesta di Zita Dazzi, Io, con il burqa nelle vie di Milano, è stato pubblicata su “Repubblica” del 20 gennaio, pp. 20-21.