Quella dell’intrattenimento delle truppe
in zona operazioni è ormai una tradizione consolidata. Ha avuto inizio,
salvo errore, verso la metà della seconda guerra mondiale, quando la forzata
militarizzazione dell’industria americana si estese, fatalmente, a Hollywood,
che di quella industria rappresentava una fetta non indifferente, e trovò
la forma delle visite al fronte (o, più esattamente, nelle retrovie) dei
principali divi dell’epoca, che con i militari in servizio doverosamente
si intrattenevano e per loro si producevano in veri e propri, non sempre
improvvisati, spettacoli di varietà. A partecipare a siffatte operazioni
erano tenute praticamente tutte le star della capitale del cinema, pena
la lista nera, ma alcune tra loro finirono con lo specializzarvisi: l’immarcescibile
Bob Hope, per esempio, che avrebbe proseguito instancabile in quell’attività
negli anni della Corea, del Vietnam e oltre, ma anche Marlene Dietrich,
il prototipo della “donna fatale”, che doveva ovviamente scontare, con
l’assidua frequentazione a quei programmi di propaganda, la sua origine
germanica e ne sarebbe stata punita dai suoi compatrioti, mezzo secolo
dopo, con il rifiuto dei funerali di stato.
Naturalmente,
siccome nell’industria dello spettacolo, almeno in America, non si butta
mai niente, anche quelle partecipazioni straordinarie allo sforzo bellico
sono state messe a frutto. Registrate su pellicola dai bravissimi
tecnici dell’esercito USA o riprodotte accuratamente in studio, di fronte
ad autentici militari gentilmente forniti dalle autorità competenti, venivano,
a volte, montate in veri e propri film, destinati a essere poi regolarmente
distribuiti. Di qualcuno è restata memoria fino a noi, almeno sui
testi specializzati: possiamo citare, tanto per fare qualche titolo, Report
from the Front, un cortometraggio con Humphrey Bogart del ’44, o Hollywood
Victory Caravan, del ’45, in cui lo stesso attore, fresco del successo
di Casablanca, esortava all’acquisto dei buoni del Prestito di Guerra.
Uno o due, nel dopoguerra, sono stati persino distribuiti in Italia
con strani titoli di fantasia, come La nave della morte (Follow the Boys,
1944), nel cui cast figurano George Raft, Vera Zorina, W.C. Fields, le
Andrew Sisters e – soprattutto – un giovanissimo, ma già luciferino Orson
Welles, che in una di quelle scene di illusionismo cinematografico che
tanto gli piacevano, sega in due la sua vecchia amica Marlene.
Altri
tempi, naturalmente. Oggi lo star system è tutta un’altra cosa,
di attori al livello di Welles e della Dietrich non ne girano tanti, e
quelli in circolazione non sono più degli schiavi di lusso alle strette
dipendenze degli studios, per cui di andare a prodursi de visu nelle retrovie
di fronte a platee sconosciute non ci pensano nemmeno. Ma questo
è il meno. Il fatto è che, a pensarci bene, non ci sono più le retrovie.
Di guerre non ne mancano certo, in un paio di quelle toste siamo
coinvolti anche noi, ma dove esattamente stia il fronte non lo saprebbe
dire proprio nessuno. Si combattono ovunque, in diretta, sotto l’occhio
pervasivo del grande fratello televisivo, che non fa differenze tra il
deserto irakeno, le montagne dell’Afghanistan e i palazzi del potere di
casa nostra, e di quanto passa il convento della televisione, dal punto
di vista dell’intrattenimento, i combattenti devono accontentarsi.
Questo
non vuol dire, naturalmente, che i nostri o gli altrui “ragazzi” in zona
di guerra, la sera, esaurite le quotidiane fatiche del peace keeping e
dell’occupazione, possano rilassarsi guardandosi, se lo desiderano, l’ultimo
sceneggiato di successo o, dio non voglia, i quiz di Amadeus o il Festival
di Sanremo. Sarebbe troppo facile. In tempi di guerra in diretta,
dell’ambaradàn televisivo il soldato al fronte non è semplice fruitore,
ma protagonista di spicco. Gli acquartieramenti sono visitati continuamente
da anchormen accattivanti e belle inviate speciali (e se l’anchorman per
eccellenza non si è ancora fatto vedere, pazienza, è solo questione di
tempo), gli ufficiali comandanti devono preoccuparsi più dei problemi di
copertura mediatica che di quelli di tattica o strategia, ogni personalità
in visita si porta dietro delle carrettate di teleoperatori e giornalisti
e se nel loro seguito non mancano né i guitti né i menestrelli, non stanno
lì per intrattenere le truppe. Sono le truppe, in effetti, che, ben
lungi dall’essere “intrattenute” da qualcuno devono intrattenere noi.
Così, l’inopinata comparsa dei “nostri
ragazzi” in quegli insulsi siparietti a Sanremo, che pure è riuscita a
scandalizzare qualcuno, era, tutto sommato, normale e prevedibile. Sono,
come ci ripetono continuamente, dei professionisti seri e anche in quella
sede, da bravi professionisti, hanno fatto il loro dovere. Che è
quello di ricordarci, con quella presenza ostentata senza preoccupazioni
di incongruità, che, nonostante le apparenze, in pace non siamo e che,
come qualsiasi popolazione in guerra, dobbiamo smetterla con le nostre
menate e deciderci a stringerci una buona volta attorno a chi sa che cosa
è meglio per noi. Che è poi lo stesso messaggio che veniva chiesto
di trasmettere ai divi del cinema quarant’anni or sono, anche se, probabilmente,
li si pagava di più. D’altronde le guerre, tutte le guerre, quelle
vere e quelle finte, quelle ostentate e quelle negate, sono state inventate
esattamente per questo.
07.03.’04