Produzioni di guerra

La caccia | Trasmessa il: 03/07/2004



Quella dell’intrattenimento delle truppe in zona operazioni è ormai una tradizione consolidata.  Ha avuto inizio, salvo errore, verso la metà della seconda guerra mondiale, quando la forzata militarizzazione dell’industria americana si estese, fatalmente, a Hollywood, che di quella industria rappresentava una fetta non indifferente, e trovò la forma delle visite al fronte (o, più esattamente, nelle retrovie) dei principali divi dell’epoca, che con i militari in servizio doverosamente si intrattenevano e per loro si producevano in veri e propri, non sempre improvvisati, spettacoli di varietà.   A partecipare a siffatte operazioni erano tenute praticamente tutte le star della capitale del cinema, pena la lista nera, ma alcune tra loro finirono con lo specializzarvisi: l’immarcescibile Bob Hope, per esempio, che avrebbe proseguito instancabile in quell’attività negli anni della Corea, del Vietnam e oltre, ma anche Marlene Dietrich, il prototipo della “donna fatale”, che doveva ovviamente scontare, con l’assidua frequentazione a quei programmi di propaganda, la sua origine germanica e ne sarebbe stata punita dai suoi compatrioti, mezzo secolo dopo, con il rifiuto dei funerali di stato.
        Naturalmente, siccome nell’industria dello spettacolo, almeno in America, non si butta mai niente, anche quelle partecipazioni straordinarie allo sforzo bellico sono state messe a frutto.  Registrate su pellicola dai bravissimi tecnici dell’esercito USA o riprodotte accuratamente in studio, di fronte ad autentici militari gentilmente forniti dalle autorità competenti, venivano, a volte, montate in veri e propri film, destinati a essere poi regolarmente distribuiti.  Di qualcuno è restata memoria fino a noi, almeno sui testi specializzati: possiamo citare, tanto per fare qualche titolo, Report from the Front, un cortometraggio con Humphrey Bogart del ’44, o Hollywood Victory Caravan, del ’45, in cui lo stesso attore, fresco del successo di Casablanca, esortava all’acquisto dei buoni del Prestito di Guerra.  Uno o due, nel dopoguerra, sono stati persino distribuiti in Italia con strani titoli di fantasia, come La nave della morte (Follow the Boys, 1944), nel cui cast figurano George Raft, Vera Zorina, W.C. Fields, le Andrew Sisters e – soprattutto – un giovanissimo, ma già luciferino Orson Welles, che in una di quelle scene di illusionismo cinematografico che tanto gli piacevano, sega in due la sua vecchia amica Marlene.
        Altri tempi, naturalmente.   Oggi lo star system è tutta un’altra cosa, di attori al livello di Welles e della Dietrich non ne girano tanti, e quelli in circolazione non sono più degli schiavi di lusso alle strette dipendenze degli studios, per cui di andare a prodursi de visu nelle retrovie di fronte a platee sconosciute non ci pensano nemmeno.   Ma questo è il meno.  Il fatto è che, a pensarci bene, non ci sono più le retrovie.  Di guerre non ne mancano certo, in un paio di quelle toste siamo coinvolti anche noi, ma dove esattamente stia il fronte non lo saprebbe dire proprio nessuno.  Si combattono ovunque, in diretta, sotto l’occhio pervasivo del grande fratello televisivo, che non fa differenze tra il deserto irakeno, le montagne dell’Afghanistan e i palazzi del potere di casa nostra, e di quanto passa il convento della televisione, dal punto di vista dell’intrattenimento, i combattenti devono accontentarsi.
        Questo non vuol dire, naturalmente, che i nostri o gli altrui “ragazzi” in zona di guerra, la sera, esaurite le quotidiane fatiche del peace keeping e dell’occupazione, possano rilassarsi guardandosi, se lo desiderano, l’ultimo sceneggiato di successo o, dio non voglia, i quiz di Amadeus o il Festival di Sanremo.  Sarebbe troppo facile.  In tempi di guerra in diretta, dell’ambaradàn televisivo il soldato al fronte non è semplice fruitore, ma protagonista di spicco.  Gli acquartieramenti sono visitati continuamente da anchormen accattivanti e belle inviate speciali (e se l’anchorman per eccellenza non si è ancora fatto vedere, pazienza, è solo questione di tempo), gli ufficiali comandanti devono preoccuparsi più dei problemi di copertura mediatica che di quelli di tattica o strategia, ogni personalità in visita si porta dietro delle carrettate di teleoperatori e giornalisti e se nel loro seguito non mancano né i guitti né i menestrelli, non stanno lì per intrattenere le truppe.  Sono le truppe, in effetti, che, ben lungi dall’essere “intrattenute” da qualcuno devono intrattenere noi.
Così, l’inopinata comparsa dei “nostri ragazzi” in quegli insulsi siparietti a Sanremo, che pure è riuscita a scandalizzare qualcuno, era, tutto sommato, normale e prevedibile.  Sono, come ci ripetono continuamente, dei professionisti seri e anche in quella sede, da bravi professionisti, hanno fatto il loro dovere.  Che è quello di ricordarci, con quella presenza ostentata senza preoccupazioni di incongruità, che, nonostante le apparenze, in pace non siamo e che, come qualsiasi popolazione in guerra, dobbiamo smetterla con le nostre menate e deciderci a stringerci una buona volta attorno a chi sa che cosa è meglio per noi.  Che è poi lo stesso messaggio che veniva chiesto di trasmettere ai divi del cinema quarant’anni or sono, anche se, probabilmente, li si pagava di più.  D’altronde le guerre, tutte le guerre, quelle vere e quelle finte, quelle ostentate e quelle negate, sono state inventate esattamente per questo.

07.03.’04