Problemi primari

La caccia | Trasmessa il: 01/23/2005



Non vi sarà sfuggito, spero, che lunedì il “Corriere della sera”, nel suo piccolo, si è sforzato di emulare il leggendario numero del “Manifesto” in cui, lo scorso tre novembre, si annunciava a tutta pagina la vittoria di Kerry alle presidenziali americane.  L’evento giornalistico da cui si partiva era forse di minore portata geopolitica, riferendosi alle “primarie” dell’Ulivo allargato in Puglia, ma ciascuno deve accontentarsi di quello che c’è, e i redattori dell’eminente quotidiano milanese hanno fatto del loro meglio, riferendo su quattro colonne più foto a pagina 6, che, ancorché il candidato di Rifondazione avesse raccolto molti consensi – il titolo, anzi, era dedicato alla “Sorpresa Vendola” – la vittoria era andata, come previsto, al candidato della Margherita.  E proprio come i loro antesignani del “Manifesto”, non si sono limitati alla notizia, ma si sono applicati con zelo al commento, insistendo soprattutto sulla soddisfazione generale che un simile esito aveva prodotto.  Contento Boccia per essere stato preferito dagli elettori, contento Vendola per avere ampiamente superato la percentuale prevista, contentissimi i leader della coalizione, compreso Arturo Parisi, che di solito non gliene va bene una, per il clima di concordia che il nuovo, miracoloso strumento delle primarie aveva propiziato tra le loro spesso indocili fila.
        Be’, come si è visto, non era vero niente.  Boccia ha perso, Vendola ha vinto e l’inversione dell’ordine dei fattori ha cambiato radicalmente il prodotto.  È da martedì che a sinistra tutti litigano con tutti, non tanto su Vendola, al quale hanno garantito all’unanimità tutto l’appoggio del caso (e ci sarebbe mancato altro), quanto sulla logica e l’utilità di quell’istituto.  Per quanto posso averne capito io, estraneo qual sono da un pezzo  alle minutiae della politica, i partiti maggiori della coalizione si sono dichiarati favorevoli alle primarie che più non si può, ma solo a patto di poterne definire l’esito a priori.  Tanto è vero che, dal loro punto di vista, le primarie ideali sono risultate essere quelle a cui si presenta un solo candidato e se per caso ce n’è un altro costui ha il dovere democratico di ritirarsi.  E ammetterete anche voi che dal punto di vista della democrazia interna un’ipotesi del genere, per quanto gradita possa risultare alle segreterie di quei partiti, dà adito a qualche sommessa perplessità.
        Naturalmente, la situazione è più complicata.  Le primarie, si sa, sono state inventate negli Stati Uniti d’America, dove non esistono dei veri e propri partiti organizzati come in Europa, proprio per ovviare a questa mancanza, per offrire un terreno su cui si possano mettere a confronto i diversi aspiranti alla candidatura.  Le procedure variano da stato a stato, ma il principio di fondo è quello che chi vince vince e chi perde sparisce, almeno fino alle prossime elezioni (in cui, peraltro, il ripescaggio di eventuali trombati alle primarie precedenti è un evento tanto raro da essere eccezionale).  In Italia, dove nessun politico ha mai preso in considerazione l’ipotesi del ritiro a vita privata, per quanti calci nei denti potesse aver preso dagli elettori o dalla concorrenza, un modello del genere non ha senso e infatti le primarie, come è già successo ai referendum e ad altre istituzioni di democrazia diretta, sono state interpretate, diciamo, in modo creativo.  Così, Prodi le ha volute per mettere la sua investitura al sicuro dalle insidie di quegli apparati di cui ha tutti i motivi di diffidare, Bertinotti vi ci si è aggregato perché, nella sua situazione, un secondo posto gli può fare persino più comodo di un primo, gli altri le hanno subite perché come si fa a dire di no, ma nessuno, né Prodi né Bertinotti né gli altri, ha mai pensato di mettervi in gioco la propria personale sopravvivenza politica.  Il che, in fondo, è abbastanza logico: politicamente il nostro paese è il paradiso dei revenants, anche se a volte li si definisce esponenti della società civile o della tradizione riformista lombarda.
        E allora perché ha fatto tanto chiasso la vittoria di Vendola, che tutti assicurano essere una degna persona, ma che, con i suoi trent’anni di  politica ai vertici sul groppone, non rappresenta esattamente l’esempio dell’uomo nuovo, del militante estraneo alle burocrazie in quanto incarnazione del genuino spirito popolare?   Ha fatto chiasso perché, come dimostra il (modesto) infortunio dei colleghi del “Corriere”, ha contraddetto tutte le previsioni, incluse, probabilmente, le sue.  La classe dirigente della sinistra ha interiorizzato a tal punto la teoria politica classica, quella per cui per vincere bisogna spostarsi al centro, scegliendo candidati e programmi tranquillizzanti e lasciando agli eccentrici, più o meno, il ruolo di Rigoletto alla corte del duca di Mantova (che serve anche lui, naturalmente, ma deve stare al suo posto) che non riesce neanche a concepire l’idea che il suo elettorato possa avere, in merito, qualche idea differente.   È altamente probabile che quei quarantamila cittadini pugliesi abbiano approfittato della prima occasione che gli si è offerta per ricordarglielo.   Il che, lo ammetterete, pone un problema di rappresentatività che, in vista del calendario elettorale che ci aspetta, dovrebbe essere considerato davvero primario.

23.01.’05