E così, tanti anni dopo Paolo Sarpi,
Pietro Giannone e Giuseppe Mazzini, l’Italia ha ritrovato un campione
dello spirito laico. Giovedì scorso, proprio il giorno in cui il
governo, pur di non spegnere le antenne del papa, costringeva un proprio
ministro alle dimissioni (una cosa che, a una settimana dal voto, equivarrebbe
a un suicidio, se non fosse che non ci si può suicidare più di una volta),
l’ottimo Adriano Celentano, di fronte a dodici milioni di telespettatori
in diretta, ha osato l’inosabile, definendo “ipocrita” l’Osservatore
romano. Un aggettivo che lo ha subito accomunato a un noto eversore come
Dario Fo e ha suscitato lo sdegno, se non proprio del papa, che in quei
giorni aveva altro cui pensare, di uno schieramento di vescovi abbastanza
nutrito da far onore a qualsiasi militante della causa del libero pensiero.
Il che, a pensarci bene, non è niente male per un artista che, nel
corso di una carriera quasi quarantennale, non ha mai mancato di esibire
la sua personale devozione, portando nella cultura pop il ricordo dei pomeriggi
all’oratorio e scrivendo una canzone contro il divorzio e una contro l’esercizio
del diritto di sciopero, che non sarà forse un problema di rilevanza catechistica,
ma serve comunque per indicare una scelta di campo.
Certo
è che quella sparata rivoluzionaria all’ex ragazzo della via Gluck gliela
hanno estorta proprio con le pinze. Per una settimana hanno fatto
tutti finta di fraintendere il senso di certe sue fin troppo ragionevoli
dichiarazioni sul problema del trapianto degli organi e del relativo assenso
alla donazione. Lo hanno trasformato a forza in un campione dell’egoismo
a tutti i costi, contrapponendogli le ragioni della scienza e quelle della
medicina, le sofferenze dei malati e lo strazio delle famiglie. Hanno
insistito sull’ovvio e hanno glissato sull’opinabile, come se senza l’infida
norma del silenzio assenso non si potessero più fare né donazioni né trapianti.
E lo hanno costretto, in definitiva, se non proprio a una ritrattazione
in piena regola, a una di quelle “precisazioni” che, anche in assenza
di una palinodia vera e propria, permettono agli avversari di cantare comunque
vittoria. Era ovvio che il personaggio, che un po’ megalomane lo
è sempre stato, si incazzasse e ne sparasse un paio di quelle toste.
Niente di preoccupante: vedrete che anche lui, presto, ritornerà nei ranghi
e non mancherà di farsi banditore dei buoni sentimenti di un’Italia che
alle parole di Stand by me ha sempre preferito quelle di Pregherò.
Peccato,
perché il problema esiste, al di là delle sparate di Celentano e delle
ipocrisie dei suoi contraddittori, vaticani, accademici e ministeriali.
È fin troppo ovvio che si tratta di un problema di domanda e di offerta
(nel senso che, come tutti sanno, si richiedono molti più organi di quanti
ne siano disponibili) e che in un paese come il nostro, in cui la logica
della solidarietà viene sempre di più sottomessa a quella dell’interesse
privato, il rischio è quello di vederlo risolvere in termine banalmente
e drammaticamente monetari. Visto che si fa mercato di tutto, perché
non si dovrebbe far mercato anche di organi? La questione era già
stata impostata, in forma grottesca, in una vecchia commedia di Zavattini,
più di quarant’anni fa, ed è stata riproposta spesso dalla fiction di
genere, ma oggi come oggi non può più essere considerata né grottesca né
generica. Il mercato è il mercato e oggi tutti ci vengono a ripetere
che gli unici valori cui deve adeguarsi sono quelli che esso stesso esprime.
Per salvare i soggetti deboli dal rischio di essere retrocessi alla
condizione di merce, ci vuol altro che il silenzio assenso.
C. Oliva, 06.05.’01