Problemi di immagine (e di coerenza)

La caccia | Trasmessa il: 01/20/2008


    Sarà senza dubbio colpa mia, visto che gli anni si fanno sentire e mentalmente non mi sento più vispo come una volta, ma devo confessarvi di non essere riuscito a capire perché esattamente il papa abbia rinunciato a presentarsi alla inaugurazione dell'anno accademico della università di Roma. Costretto, dicono tutti che non lo ha costretto nessuno. Problemi di sicurezza o di ordine pubblico, lo ha certificato il ministero competente, non ce n'erano. E che uno dei potenti di questa terra, uno che agisce, a suo dire, nientemeno che come Vicario del Padre Eterno, si sia lasciato impressionare dalla lettera, peraltro piuttosto garbata, di sessantasette professori e dai progetti protestatari di un collettivo studentesco mi sembra, come minimo, poco credibile. Il comunicato della Segreteria di stato allude vagamente all'opportunità di non mettere a rischio la sua veneranda immagine, ma che quella dell'immagine fosse una delle preoccupazioni principali del sommo romano pontefice non mi sarei mai permesso di supporlo. È vero che papa Ratzinger, lo avrete notato anche voi, non è immune da una certa dose di umana vanità – basta osservare l'evidente soddisfazione con cui indossa i paramenti solenni, o il modo compiaciuto (e un poco lezioso) cui atteggia volto e mani nel corso delle sue uscite pubbliche – ma da uno che è stato per non so più quanti anni alla testa del Santo Uffizio ci si aspetterebbe una maggiore capacità di autocontrollo. La prospettiva di subire qualche critica e sottostare, magari, a una pacifica contestazione non sembra sufficiente, a lume di logica, a motivare una rinuncia così clamorosa.
    Forse potrebbe essere utile affrontare il problema a contrario, secondo un procedimento non ignoto alla storia della filosofia, chiedendoci quali motivi avrebbe potuto accampare il pontefice per partecipare a quella cerimonia. Sì, d'accordo, lo avevano invitato, ma di inviti, probabilmente, lui ne riceve tanti e può essere interessante scoprire in quale veste e secondo quale logica aveva, in un primo tempo, deciso di accettare quello. Come capo spirituale certamente no, perché nemmeno a lui poteva sfuggire che l'università oggi non è frequentata, come ai bei tempi, solo da gente disposta ad accettare la sua autorità. Come sommo studioso neanche, perché la disciplina in cui, per unanime riconoscimento, eccelle (la teologia) non viene insegnata nelle università italiane, per l'ottimo motivo che la chiesa cattolica non è mai stata disposta a rinunciare al suo monopolio in materia. E neppure come portatore di un punto di vista da mettere a confronto con gli altri, come lo hanno descritto alcuni commentatori particolarmente ottimisti, perché un atteggiamento del genere poco conviene, in realtà, a chi si considera espressione e baluardo dell'unica verità rivelata. Insomma, la difficoltà era tanto evidente, che sui giornali, nei giorni precedenti la mancata visita, erano apparse le motivazioni più singolari, come quella secondo cui il diritto di Benedetto XVI a prendere la parola in quel consesso era asseverato dal fatto che l'università di Roma si può considerare fondata, nel XIV secolo, da un altro papa, il che significa, naturalmente, semplificare un po' troppo la storia di quella venerabile istituzione e comporta la difficoltà aggiuntiva di dover assimilare in qualche modo l'attuale detentore della carica con una figura, quella di papa Benedetto Caetani, meglio noto come Bonifacio VIII, la cui fama di faziosità e simonia fu tale che Dante trova ingegnosamente modo di collocarlo all'inferno anche se nel momento in cui suppone di compiere il suo viaggio ultraterreno, nell'anno giubilare1300, quel pontefice era ancora in vita.
    E allora? Be', allora è evidente che il papa ha dovuto rinunciare ai suoi progetti per conservare la propria coerenza. Non poteva rinunciare al proprio ruolo sovrano, né alla specificità del proprio campo di studi, né all'incontestabilità del sistema di pensiero che incarna. Qualsiasi cedimento di quel tipo si sarebbe configurato come un'adesione implicita a quel relativismo che da sempre Ratzinger combatte come uno dei mali più perniciosi del secolo. In altre parole, Benedetto XVI, cui non mancano certo le occasioni di esprimere il proprio pensiero, ma è sempre disposto a sfruttarne una nuova, avrebbe potuto parlare alla Sapienza solo se l'intero corpo accademico e studentesco, senza eccezioni, fosse stato disposto a genuflettersi devotamente in ascolto. Una volta profilatasi la possibilità di una opposizione, per quanto minoritaria e quasi simbolica, non poteva più farlo. Onde la plateale rinuncia, che ha, oltretutto, offerto ai suoi seguaci la possibilità di giocare al loro gioco preferito, che è notoriamente quello di presentarsi alla opinione pubblica come conculcati e oppressi, privi persino del diritto di intervento in una occasione come quella, il che, se udito dalle labbra di coloro che più solidamente, nel nostro paese, detengono il potere ideologico e meno sono disposti a mollarlo, e che con maggiore protervia chiedono allo stato di adeguare la leggr comune alle loro normative private, non può che fare un po' ridere. O piangere, se preferite.

    La mia interpretazione, naturalmente, è faziosa per definizione e per di più viziata da quel po' di rimbambimento senile cui accennavo all'inizio. Prendetela come volete. È poco ma sicuro, invece, che tutti i nostri politici, dal Presidente della Repubblica in giù, e la maggior parte dei commentatori sono caduti come altrettanti allocchi nella trappola curiale e si sono affrettati a genuflettersi loro, quasi a voler espiare l'irriverenza di quei sessantasette professori ribelli e dei relativi studenti. E se ne sono sentite delle belle. Non tutti, naturalmente, hanno raggiunto l'alto livello di comicità surreale toccato da Giuliano Ferrara, che ha avuto il coraggio di dichiarare che se, invece di interrompere gli studi, li avesse proseguiti fino a ottenere una laurea alla Sapienza, oggi l'avrebbe sicuramente restituita, dimostrando così che a forza di supposizioni si può andare lontano, fino a rinunciare a ciò che non si ha mai avuto, ma di esempi di servilismo culturale non ne sono certo mancati, a partire dalle affermazioni di chi ha paventato, di fronte al modesto episodio di questi giorni, addirittura una rinascita dell'anticlericalismo ottocentesco. E pazienza se Formigoni e la Moratti fanno installare in piazza del Duomo un megaschermo per permettere anche ai milanesi di seguire in diretta l'Angelus riparatore, visto che in questo non fanno altro che il loro mestiere, ma cosa sono tutte le presenze “laiche” (o sedicenti tali) annunciate questa mattina in piazza San Pietro se non gesti, appunto, di servilismo? Nessuno, a quanto pare, si rende conto delle dimensioni reali dell'offensiva ecclesiastica nel nostro paese, dell'evidente tentativo dei vertici vaticani di approfittare della debolezza del quadro politico nazionale e del discredito in cui si è cacciato il ceto dirigente per ristabilire una solida egemonia sulla società civile. O forse se ne rendono conto benissimo, ma tutti presi come sono nei loro personalissimi giochi, non gli interessa. Che volete, a forza di disquisire sulla differenza tra la bozza Bianco e il Vassallum e di seguire le peripezie della famiglia Mastella si finisce con il perdere il contatto con la realtà.