Problemi di evangelizzazione

La caccia | Trasmessa il: 04/29/2001



Forse avrete sentito parlare anche voi di monsignor Alessandro Maggiolini, vescovo di Como, quello che se il Bossi non avesse rinfoderato lo spadone secessionista sarebbe diventato, probabilmente, Primate della Padania libera e che invece, stando le cose come stanno, è semplicemente uno dei cappellani del pio Formigoni che, essendo nato sull’altro ramo del  lago, non deve averlo in grandissima simpatia.  La sua notorietà sembrava abbastanza in declino, il che può avere qualche rapporto con il calo delle fortune politiche del leghismo, ma è stata rinfrescata in questi giorni dalla notizia dell’imminente uscita di un suo libro.  Il volume uscirà a metà maggio, per i tipi della Piemme di Casale Monferrato, una casa editrice che i miei ascoltatori più assidui conosceranno soprattutto perché pubblica i thriller di Michael Connelly e Robert Crais, ma che vanta un’antica tradizione anche nel campo della saggistica teologica,  e reca il titolo, piuttosto inquietante, di Fine della nostra cristianità.
In realtà, l’opera, a quanto si annuncia, è di natura, più che inquietante, esplosiva.  L’autore, stando alle anticipazioni di stampa diffuse in questi giorni (particolarmente in un ampio articolo di Gad Lerner sul “Corriere” di martedì 24 aprile) vi mette in evidenza “le fragilità e le mancanze della Chiesa italiana”.  Senza preoccuparsi di fin troppo probabili polemiche e contestazioni, si dichiara convinto che “la specifica forma di cristianità assunta dal cristianesimo italiano possa essere destinata all’estinzione, come già in passato scomparvero le grandi Chiese di San Paolo e di Sant’Agostino. “  Dubita “che si potrà conservare ancora a lungo quel poco di cristianità che ancora rimane tra noi”, perché “viste le condizioni in cui versa la Chiesa italiana, non solo nessun principio dogmatico ci assicura che durerà ancora a lungo, ma non è neppur detto che sia bene che duri”.  E questo, si badi, non tanto in seguito a minacce o pericoli esterni, quanto per un fatto di “autodissoluzione”, per via di “una frana interiore favorita dalla liturgia moderna, che espunge il momento dell’eucarestia, rifugge la disciplina e l’obbedienza, esalta il dialogo come il valore in sé.”  Insomma, il vescovo di Como si schiera tra le file dei rigoristi estremi, di quanti in certe posizioni della Chiesa contemporanea vedono soltanto lassismo e rinuncia alla propria identità, tant’è vero che, sempre stando al citato articolo sul “Corriere”, nel suo cuore amareggiato rimbomba da tempo la terribile invettiva del profeta Ezechiele (16,33): “Alle adultere si sogliono fare doni, ma tu hai fatto doni a tutti i tuoi amanti”  E confida agli amici che “purtroppo quell’immagine della prostituta che si concede non per denaro, ma per il gusto di peccare, gli ricorda da vicino la Chiesa italiana contemporanea”.
        Ovviamente, non sono io la persona più adatta per giudicare queste affermazioni, che mi limito a trasmettervi con beneficio di inventario.  Che nel quadro valori vigente nel paese quelli comunemente considerati cristiani non siano i prevalenti sembra ovvio anche a me, ma non sono esattamente convinto che la cosa dipenda da una particolare tendenza al lassismo nella Chiesa cattolica.  Anzi, il potere della Chiesa mi sembra ben solido e tutt’altro che rilassato, la sua influenza ideologica molto maggiore di quanto non auspicherei e tutt’altro che spento il rigore con cui i suoi esponenti difendono (e impongono agli altri) le proprie posizioni.  In effetti, a volerla dire proprio tutta, sono sempre stato convinto che tra diffusione dei valori cristiani e rigore del magistero ecclesiastico ci sia un rapporto esattamente inverso a quello supposto dai vari monsignor Maggiolini, ma questo, capirete, non è un problema che possa venire affrontato in questa sede.
        In realtà io volevo soltanto segnalarvi un passaggio dell’articolo di Gad Lerner, quello in cui il monsignore prevede che “ci stiamo avviando a una situazione dove, in fatto di religione, somiglieremo forse ai negretti e agli indios da catechizzare: negretti e indios ben pasciuti, un poco annoiati e abbastanza raffinati”.  È un passaggio – dal punto di vista dello studioso – di grande interesse, anche perché, se non altro, apre delle prospettive impreviste su quelle che possono essere state le fonti del nostro teologo.  Sarà una pura illazione, ma sembra lecito supporre che il monsignore, oltre a San Paolo, a Sant’Agostino e al profeta Ezechiele, abbia trovato il tempo di dedicarsi ad Agatha Christie, il cui Dieci piccoli negretti (o, a seconda delle edizioni, Dieci piccoli indiani), in effetti, ha raggiunto, da quando è stato pubblicato nel lontano 1939 delle tirature che non sfigurano a fronte di quelle delle Sacre Scritture.   Con la differenza, naturalmente che la vecchia Agatha, a un certo punto, aveva lasciato cadere quel titolo, perché le era stato fatto notare che la parola inglese corrispondente a “negretti” (little niggers) poteva essere considerata (e di fatto era considerata, almeno in America) offensiva e paternalistica, tanto è vero che quel romanzo, oggi, è comunemente noto come And Then There Were None (E poi non rimase nessuno).  Monsignor Maggiolini, invece, scrive in italiano e in quel termine non trova nulla di offensivo: lui, se mai, vuole offendere, o, più che offendere, mettere bonariamente alla berlina, coloro che a tanti piccoli negretti vengono paragonati.  Pensate: in fatto di religione somiglieremo, ben presto, ai negretti e agli indios: che vergogna.  E a negretti e indios pasciuti, il che, oltre a essere vergognoso, è decisamente contraddittorio, perché tutti sappiamo che quell’aggettivo, nel mondo di oggi, non si adatta precisamente né agli uni né agli altri.
Probabilmente il vescovo Maggiolini, formulando quel paragone, voleva soltanto esprimere un paradosso.  Ma ammetterete anche voi che il fatto che lo abbia formulato in quei termini è una dimostrazione lampante del suo assunto di base.  In effetti, quanto a valori cristiani, in Italia stiamo piuttosto male.

C. Oliva, 29.04.’01