Forse avrete sentito parlare anche voi
di monsignor Alessandro Maggiolini, vescovo di Como, quello che se il Bossi
non avesse rinfoderato lo spadone secessionista sarebbe diventato, probabilmente,
Primate della Padania libera e che invece, stando le cose come stanno,
è semplicemente uno dei cappellani del pio Formigoni che, essendo nato
sull’altro ramo del lago, non deve averlo in grandissima simpatia.
La sua notorietà sembrava abbastanza in declino, il che può avere
qualche rapporto con il calo delle fortune politiche del leghismo, ma è
stata rinfrescata in questi giorni dalla notizia dell’imminente uscita
di un suo libro. Il volume uscirà a metà maggio, per i tipi della
Piemme di Casale Monferrato, una casa editrice che i miei ascoltatori più
assidui conosceranno soprattutto perché pubblica i thriller di Michael
Connelly e Robert Crais, ma che vanta un’antica tradizione anche nel campo
della saggistica teologica, e reca il titolo, piuttosto inquietante,
di Fine della nostra cristianità.
In realtà, l’opera, a quanto si annuncia,
è di natura, più che inquietante, esplosiva. L’autore, stando alle
anticipazioni di stampa diffuse in questi giorni (particolarmente in un
ampio articolo di Gad Lerner sul “Corriere” di martedì 24 aprile) vi
mette in evidenza “le fragilità e le mancanze della Chiesa italiana”.
Senza preoccuparsi di fin troppo probabili polemiche e contestazioni,
si dichiara convinto che “la specifica forma di cristianità assunta dal
cristianesimo italiano possa essere destinata all’estinzione, come già
in passato scomparvero le grandi Chiese di San Paolo e di Sant’Agostino.
“ Dubita “che si potrà conservare ancora a lungo quel poco di cristianità
che ancora rimane tra noi”, perché “viste le condizioni in cui versa
la Chiesa italiana, non solo nessun principio dogmatico ci assicura che
durerà ancora a lungo, ma non è neppur detto che sia bene che duri”. E
questo, si badi, non tanto in seguito a minacce o pericoli esterni, quanto
per un fatto di “autodissoluzione”, per via di “una frana interiore
favorita dalla liturgia moderna, che espunge il momento dell’eucarestia,
rifugge la disciplina e l’obbedienza, esalta il dialogo come il valore
in sé.” Insomma, il vescovo di Como si schiera tra le file dei rigoristi
estremi, di quanti in certe posizioni della Chiesa contemporanea vedono
soltanto lassismo e rinuncia alla propria identità, tant’è vero che, sempre
stando al citato articolo sul “Corriere”, nel suo cuore amareggiato rimbomba
da tempo la terribile invettiva del profeta Ezechiele (16,33): “Alle adultere
si sogliono fare doni, ma tu hai fatto doni a tutti i tuoi amanti” E
confida agli amici che “purtroppo quell’immagine della prostituta che
si concede non per denaro, ma per il gusto di peccare, gli ricorda da vicino
la Chiesa italiana contemporanea”.
Ovviamente,
non sono io la persona più adatta per giudicare queste affermazioni, che
mi limito a trasmettervi con beneficio di inventario. Che nel quadro
valori vigente nel paese quelli comunemente considerati cristiani non siano
i prevalenti sembra ovvio anche a me, ma non sono esattamente convinto
che la cosa dipenda da una particolare tendenza al lassismo nella Chiesa
cattolica. Anzi, il potere della Chiesa mi sembra ben solido e tutt’altro
che rilassato, la sua influenza ideologica molto maggiore di quanto non
auspicherei e tutt’altro che spento il rigore con cui i suoi esponenti
difendono (e impongono agli altri) le proprie posizioni. In effetti,
a volerla dire proprio tutta, sono sempre stato convinto che tra diffusione
dei valori cristiani e rigore del magistero ecclesiastico ci sia un rapporto
esattamente inverso a quello supposto dai vari monsignor Maggiolini, ma
questo, capirete, non è un problema che possa venire affrontato in questa
sede.
In
realtà io volevo soltanto segnalarvi un passaggio dell’articolo di Gad
Lerner, quello in cui il monsignore prevede che “ci stiamo avviando a
una situazione dove, in fatto di religione, somiglieremo forse ai negretti
e agli indios da catechizzare: negretti e indios ben pasciuti, un poco
annoiati e abbastanza raffinati”. È un passaggio – dal punto di
vista dello studioso – di grande interesse, anche perché, se non altro,
apre delle prospettive impreviste su quelle che possono essere state le
fonti del nostro teologo. Sarà una pura illazione, ma sembra lecito
supporre che il monsignore, oltre a San Paolo, a Sant’Agostino e al profeta
Ezechiele, abbia trovato il tempo di dedicarsi ad Agatha Christie, il cui
Dieci piccoli negretti (o, a seconda delle edizioni, Dieci piccoli indiani),
in effetti, ha raggiunto, da quando è stato pubblicato nel lontano 1939
delle tirature che non sfigurano a fronte di quelle delle Sacre Scritture.
Con la differenza, naturalmente che la vecchia Agatha, a un certo
punto, aveva lasciato cadere quel titolo, perché le era stato fatto notare
che la parola inglese corrispondente a “negretti” (little niggers) poteva
essere considerata (e di fatto era considerata, almeno in America) offensiva
e paternalistica, tanto è vero che quel romanzo, oggi, è comunemente noto
come And Then There Were None (E poi non rimase nessuno). Monsignor
Maggiolini, invece, scrive in italiano e in quel termine non trova nulla
di offensivo: lui, se mai, vuole offendere, o, più che offendere, mettere
bonariamente alla berlina, coloro che a tanti piccoli negretti vengono
paragonati. Pensate: in fatto di religione somiglieremo, ben presto,
ai negretti e agli indios: che vergogna. E a negretti e indios pasciuti,
il che, oltre a essere vergognoso, è decisamente contraddittorio, perché
tutti sappiamo che quell’aggettivo, nel mondo di oggi, non si adatta precisamente
né agli uni né agli altri.
Probabilmente il vescovo Maggiolini,
formulando quel paragone, voleva soltanto esprimere un paradosso. Ma
ammetterete anche voi che il fatto che lo abbia formulato in quei termini
è una dimostrazione lampante del suo assunto di base. In effetti,
quanto a valori cristiani, in Italia stiamo piuttosto male.
C. Oliva, 29.04.’01