Avrete senza dubbio notato come, la scorsa settimana, cedendo alla tentazione,
non sempre innocua, di vantare la mia cultura e le mie conoscenze linguistiche,
altro non sono riuscito a fare che rivelare la profondità della mia ignoranza.
Parlando della campagna pubblicitaria di quella rivista femminile
che ha creduto di fare chissà quale complimento alle sue lettrici affermando
che non di donne qualsiasi, ma di “uome” (o si dirà “uomine”?) si tratta,
avevo fatto notare che in nessuna lingua a me nota, direttamente o indirettamente,
la parola per “donna” risulta costruita sulla stessa radice di quella
per “uomo” (e viceversa), traendone la confortante assicurazione che
il linguaggio potesse essere considerato più ragionevole dell’ideologia,
nel senso che impiegando, per definire le due metà del genere umano, due
parole ben diverse si afferma, oltre che l’ovvia diversità dei soggetti
cui i termini si riferiscono, la loro reciproca autonomia sul piano dei
valori, un’autonomia che sarebbe surrettiziamente negata se si considerasse
uno dei due termini derivato dall’altro, e quindi, in un certo senso,
inferiore. Bene: in pratica non avevo finito di parlare che già fioccavano
le telefonate degli ascoltatori che mi facevano notare come almeno una
lingua che usa, per indicare l’uomo e la donna, la stessa radice dovrebbe
essere ben nota a chiunque si azzardi a fare in pubblico generalizzazioni
di quel tipo. È l’ebraico, come chiunque, tutto sommato, potrebbe
dedurre da quel brano della Genesi (2, 23) in cui il padre Adamo, subito
dopo la creazione di Eva, decide che “la si chiamerà donna, perché dall’uomo
è stata tolta”, una frase che, se letta in italiano non dà senso alcuno,
ma ne acquista uno molto preciso se si sa che nell’originale “uomo”
si dice ish e “donna”, guarda un po’, ishsha. I due termini, mi
ha assicurato un ascoltatore particolarmente colto, si sono conservati
nell’ebraico successivo, fino a oggi.
Non vi nascondo che ci sono restato male. Avrei
potuto rispondere che la cosa, in fondo, confermava le mie affermazioni,
perché solo quell’uso linguistico lì può giustificare un racconto come
quello della Bibbia, in cui la derivazione (e quindi l’inferiorità) di
uno dei due soggetti rispetto all’altro è affermata che più chiaramente
non si potrebbe, ma mi hanno spiegato anche che quel passo della Genesi
è, al contrario, uno dei più controversi dell’intera Scrittura, tanto
dal punto di vista della tradizione talmudica quanto da quello della filologia
biblica, per cui probabilmente ho fatto meglio a tacere. E poi, via,
che vergogna, parlare di lingue, sdottorare di seconda mano via etere di
turco, cinese e giapponese e inciampare così sull’ebraico! È vero
che avevo ammesso a priori la possibilità che qualche lingua a me ignota
si comportasse diversamente da quelle che avevo citato, ma di solito queste
affermazioni si fanno più per mettere le mani avanti che per intima convinzione
e non ingannano nessuno. E l’idea che non sapere l’ebraico sia
più grave che ignorare, diciamo, il tunguso o il maori, per irrazionale
che sia, fa parte della nostra cultura e non può essere messa da parte
tanto facilmente.
Il fatto è che l’ebraico, nella storia della
nostra cultura, ha un ruolo affatto speciale. Se la moderna linguistica
storica ne ha fatto una componente qualsiasi del gruppo semitico occidentale,
in passato la sua condizione è stata ben diversa. In fondo, quasi
tutti gli studiosi (con qualche eccezione, come quella di Dante, che nega
l’ipotesi nel canto XXVI del Paradiso) hanno concordato per secoli sul
fatto che fosse la lingua parlata nel Giardino dell’Eden, il che ne faceva
automaticamente la lingua primigenia, di origine, se non immediatamente
divina, quasi, e quindi molto vicina allo status di quella lingua perfetta
di cui tutte le altre sarebbero imperfette derivazioni che i linguisti
hanno indefessamente cercato per secoli (e, in un certo senso, sotto forma
di “grammatica generativa”, di “struttura profonda” o di chissà che
altro, continuano a cercare).
Che l’ebraico sia la lingua primigenia, o
almeno la più antica, è stato affermato, d’altronde, anche in via sperimentale.
Le cronache ricordano come il re Giacomo IV di Scozia (che regnò
dal 1488 al 1513, alle soglie dell’era moderna) abbia ripetuto, con particolare
rigore, il vecchio esperimento che Erodoto aveva attribuito al faraone
Psammetico, disponendo che due bambini fossero allevati in totale isolamento,
senza che fosse insegnata loro, letteralmente, una parola e abbia scoperto
che, dopo un po’, i due disgraziati si mettevano a conversare in buon
ebraico. Ai tempi di Psammetico, veramente, le creature avevano chiesto
da mangiare in frigio, ma chissà cosa aveva in mente quel faraone. Di
cervelli balzani ce ne sono sempre tanti: in fondo nel XVII secolo va registrato
persino un erudito svedese, un certo Andreas Kenke, secondo il quale nell’Eden
Dio parlava svedese, Adamo danese e il serpente francese.
Il bello, eruditi svedesi a parte, è che la
cultura occidentale ha sempre riconosciuto all’ebraico questa alta funzione,
ma non ne ha mai tratto la conclusione di doverne fare una delle “sue”
lingue. Non ne ha inserito l’apprendimento nei curricula di studio,
non ha mai posto la condizione che i dotti, per essere considerati tali,
la dominassero. Mentre chiunque, per poter aspirare a un ruolo sociale
appena appena distinto, doveva masticare il greco e il latino, a conoscere
l’ebraico - fuori dal ghetto, naturalmente - sono sempre stati solo gli
specialisti, con la parziale eccezione di pochi anticonformisti colti,
come il Leopardi o gli ascoltatori di Radio Popolare che mi hanno telefonato.
E questo non solo in Italia e nei paesi cattolici, in cui la lettura
della Bibbia, com’è noto, non è mai stata incoraggiata, ma anche nel resto
d’Europa, dove nulla osta a che si legga quanto più della Bibbia si riesce
a leggere, a patto, naturalmente, che lo si faccia in traduzione. Meglio
se in una “traduzione autorizzata” come quella che Giacomo I (che, nonostante
il numero d’ordine, era pronipote di quel Giacomo IV di Scozia di cui
sopra) aveva fatto predisporre per i suoi fedeli sudditi di lingua inglese.
Perché capirete, aver sotto mano una lingua
perfetta alle cui strutture demandare la soluzione di interessanti problemi
socioculturali (per esempio quale sia la posizione reciproca dell’uomo
e della donna) è già molto comodo per chi detenga il potere. Se poi
questa lingua perfetta non la conosce nessuno, il che garantisce che nessuno
si metta a discutere le tue interpretazioni senza esserne debitamente autorizzato,
be’, allora è proprio un dono della Provvidenza. Una lingua divina,
appunto.
08.11.’98