Primavera d'intorno

La caccia | Trasmessa il: 04/25/2010


    Fino all'altro ieri faceva un freddo cane e, all'improvviso, è primavera. Gli uccellini cinguettano, sbocciano fiori variopinti e il sole brilla festoso nel cielo turchino. La giacca di velluto con la quale, qualche giorno fa, avevo sostituito quella di tweed e che mi sembrava – inutile negarlo – sgradevolmente leggera, oggi mi pesa addosso come fosse un coltrone da pescatore siberiano, inducendomi ai più cupi pensieri. Perché, anche se, a differenza dall'amico Accame, sono relativamente libero dalla maledizione stagionale dei pollini, anch'io soffro delle mie brave allergie e, in particolare, sono allergico a quella procedura domestica che passa sotto il nome di “cambio di stagione”. Non ho voglia, non ho nessuna voglia di togliere dall'armadio giacche, maglioni e pantaloni pesanti, portarli in tintoria, sostituirli con i corrispondenti capi leggeri e riporli, quando dalla tintoria mi saranno tornati indietro, ai piani alti del guardaroba avvolti nelle apposite custodie di plastica. Mi ripugna la sola idea di recuperare lo scatolone dove sono riposte camiciole e t-shirt e svuotarlo per far posto alle camicie di lana. Provo orrore all'idea di sottoporre i vari indumenti all'esame cui di solito li si sottopone in queste occasioni, sapete, quello del questa giacca ha i gomiti veramente troppo lisi, ma forse ci si potrà mettere un paio di toppe, di quest'altra invece anche le toppe si sono logorate, sembra matura per il contenitore della Charitas, ma mi dispiace, in venticinque anni mi ci sono affezionato, questo paio di pantaloni, piuttosto, sono così lisi che la prossima volta che mi chino per raccogliere una matita mi troverò a chiappe clamorosamente scoperte in pubblico e anche a questo giubbino forse sarà il caso di di rinunciare, è indelebilmente macchiato e la zip si è incagliata una volta per tutte, ma d'altronde chi ha voglia di comprare un giubbino nuovo eccetera eccetera eccetera. È da una vita che a questo tipo di attività ci dedichiamo due volte all'anno, due o tre settimane dopo l'equinozio di primavera e quello di autunno, io e la compagna della mia vita e poche cose del trantran quotidiano ci riescono altrettanto moleste. Pure lo facciamo, come lo facevano le nostre madri e, prima di loro, suppongo, le nostre nonne, con la rassegnazione di chi deve assoggettarsi a una condanna senza appello. Il che spiega perché colpevolmente indugiamo e tendiamo a rimandare il più possibile l'avvio delle operazioni. Chissà, forse domani il Giudizio Universale o l'impatto di un asteroide assassino o qualche altra imprevista catastrofe che preveda lo sconvolgimento delle stagioni ci risparmierà questa faticata.
    Eppure, è il primo giorno di sole e c'è in giro una quantità di gente che questo penoso dovere lo ha evidentemente già assolto. Ragazzini e giovinette in maglietta a maniche corte, signorine in pantaloni leggeri e camicetta, qualcuna addirittura in short, impiegati in sahariana di cotone e giacchetta a righine affollano all'improvviso le strade. Molti sono evidentemente studenti ed è difficile che all'incombenza abbiano provveduto di persona, ma sono evidentemente dotati di mamme molto più zelanti di me. Molti altri però non hanno l'età e l'aspetto di chi debba dipendere da una mamma e pure, tempo ventiquattro ore, hanno lasciato cadere, come altrettante farfalle in uscita dalla crisalide, le coperture di cui si ammantavano e ed espongono generose porzioni di pelle nuda ai baci degli zeffiri cortesi. Dio, come li invidio. Inutilmente mi sforzo di consolarmi con l'idea che domani una irruzione anomala di tramontana o una gelata tardiva li congelerà fino all'osso. Ricompariranno senza problemi in quei caldi panni di lana che, a rigore, dovrebbero essere affidati alle tintorie.
    È da tempo, infatti, che mi arrovella il sospetto che a tutta la procedura del cambio di stagione costoro non si assoggettino affatto. Che nelle loro case, nei palazzi e nei tuguri in cui conducono la loro spensierata esistenza, non esistano i doppi armadi e i doppi cassettoni da cui spostare periodicamente i vestiti: che giacche, gonne, pantaloni, camicie e magliette siano riposte in pittoresco disordine, quelle più leggere insieme alle più pesanti, una accanto all'altra, così che previa un'occhiata fuori dalla finestra, al mattino, basti stendere la mano per cogliere, come un frutto dal ramo, il capo appropriato al clima del giorno. Chissà, magari alcuni di loro i vestiti li terranno addirittura ammucchiati per terra, risparmiandosi la fatica dell'allinearli nel guardaroba. Al momento di indossarlo l'oggetto sarà forse un po' stazzonato, ma chi se ne cura?
    Non si fa così, eh, significa essere sciatti e disordinati, mia madre e mia nonna li avrebbero sanzionati con severità anche maggiore, ma sapeste, lo ripeto, sapeste quanto li invidio. Essere liberi dalla schiavitù degli armadi, singoli e doppi, significa avvicinarsi, almeno idealmente, alla condizione del Giardino dell'Eden, dove di simili attrezzi non se ne trovavano punto, o a quella roussoviana del buon selvaggio, o addirittura accostarsi agli spiriti liberi dell'aria e della terra. Né Ariele né Calibano, che io sappia, avevano di questi problemi.
    Noi, vittime della civiltà e delle sue procedure obbligate, non possiamo gioire nemmeno dell'arrivo della primavera. Che sarà, come dice il poeta, la stagione in cui i giovani volgono la mente a vaghi pensieri d'amore, ma la giovinezza, si sa, non è eterna, ogni amore è destinato a finire, e l'unica certezza che ci rimane, mentre, lungo il sentiero fiorito di primule arranchiamo verso l'eterno falò, è quella di dover portare, come se non bastasse, giacche, maglioni e cappotti in tintoria. Che palle.
25.04.'10