È già passata una settimana e il ricordo
della spassoso spettacolo dei principali leader politici del paese intenti
a discutere per tre ore in diretta televisiva su dei risultati referendari
“virtuali”, destinati a non essere confermati dallo spoglio dei voti,
sta inesorabilmente impallidendo nella nostra memoria. Peccato, perché,
come il giorno dopo hanno riconosciuto, con imprevedibile unanimità, tutti
i commentatori, è stato uno spettacolo molto divertente. E istruttivo,
naturalmente, perché certi comportamenti la dicono sempre lunga:
pensate alla prontezza con cui Fini, quell’ingrato, ha cercato di azzannare
alle terga Berlusconi, cui pure deve tanto, approfittando del vantaggio
che gli dava il fatto che per quel risultato lo sdoganatore dei neofascisti
non si fosse troppo speso, o alla burbanza con cui il senatore Di Pietro
alludeva ai concittadini che, sul ”suo” referendum, non erano andati
a votare. Sembrava proprio dispiaciuto di non poterli arrestare tutti.
Per non dire della malcelata soddisfazione di Cossutta, che in teoria
era per il no, ma che non aveva evidentemente motivo di dolersi per
la prevista cancellazione dalla scena parlamentare di Bertinotti e che,
comunque, da qualsiasi quota proporzionale non poteva (e non può) sperare
che percentuali troppo irrisorie per significare qualcosa. E delle
perplessità di Veltroni, che evidentemente cominciava a chiedersi come
fare a tenere insieme una maggioranza così palesemente a pezzi e, fedele
ai suoi interessi di fondo, chiedeva al conduttore se, per intanto, non
si potesse smetterla con tutte quelle chiacchiere e guardarsi un buon telefim.
Eccetera eccetera.
Ma
forse non era il caso di divertirsi troppo. In fondo, quello spettacolo
era la testimonianza più eloquente del livello cui è giunta la nostra classe
politica. Erano lì, i leader dei principali partiti, figure carismatiche
o vecchie volpi della politica, fa lo stesso, a misurarsi con quelle che,
in tutta evidenza, erano solo delle proiezioni, delle estrapolazioni statistiche,
e non riuscivano – evidentemente – a rendersi conto della natura dei
dati su cui discutevano. Aveva un bel dire quel disgraziato dell’Abacus
che la previsione del 52% dei votanti era solo provvisoria, basata su un
campione ancora incompleto, e che quella del 50,8 era sì definitiva, ma
rientrava nei margini dello scostamento statistico, per cui non significava
altro che chiunque avesse prevalso lo avrebbe fatto con un margine minimo.
Era ovvio che tutti quei leader. che pure vivono di sondaggi, erano
troppo ignoranti per avere la minima idea di cosa sia, in buona sostanza,
un margine di scostamento statistico. “Occhio” diceva il meschino,
che capiva benissimo che alla fine il capro espiatorio avrebbe finito per
farlo lui, “guardate che la ‘forchetta’ è dell’uno per cento e che
con una ‘forchetta’ dell’uno per cento una maggioranza dello zero otto
non garantisce niente”. “Sì, sì” rispondevano loro, distratti,
e ricominciavano a discutere della Presidenza della Repubblica o di che
altro, sulla base di quelli che ritenevano i nuovi, ormai acquisiti, rapporti
di potere. Era chiaro che i nuovi rapporti di potere reciproco erano
l’unica cosa che gli interessasse. Il risultato del voto, dal loro
punto di vista, era stato acquisito e metabolizzato da tempo; il referendum,
in sé, non era che una formalità. E se Veltroni, che è stato Ministro
dei Beni Culturali, e quindi ha letto molto La settimana enigmistica, poteva
sentirsi turbato dal ricordo della celebre serie di vignette sulle “ultime
parole famose”, non si sentiva per questo esonerato dal diritto di spiegarci
che il raggiungimento del quorum e il trionfo dei sì erano un’ottima cosa
perché così si sarebbe fatto subito il doppio turno (lo stesso argomento,
per chi ha un minimo di memoria, sostenuto dal povero Occhetto dopo il
trionfo, vero, del ’93).
Eppure,
a ripensarci, l’ipotesi di una prevalenza del non voto non era poi tanto
illogica. Qualcuno, ricorderete, ci aveva sperato. E non tanto
perché c’è la guerra o perché i giornali cattivi non hanno fatto la propaganda
dovuta all’invito ad andare a votare. Il fatto è che, di fronte
a un quesito “tecnico” lungo e complicato (quarantanove righe in caratteri
molto piccoli), destinato, se accolto, ad avere un effetto politico tutt’altro
che sicuro e univoco, un quesito che, in sostanza, si riduceva a una discutibile
questione di principio (“il maggioritario è migliore del proporzionale”)
e, in pratica, equivaleva a una richiesta di delega in bianco (“poi la
faremo noi la legge giusta”), l’ipotesi di restarsene a casa poteva suonare
piuttosto allettante. Era, a pensarci bene, una pura questione di
buon senso. Ma sul buonsenso dei cittadini i nostri leader non sono
evidentemente disposti a scommettere.
Uno degli effetti collaterali dell’ignoranza,
si sa, è la supponenza, la fiducia di potersela cavare sempre e comunque.
Ed è proprio per supponenza, se ci pensiamo, che la stragrande maggioranza
della classe politica si è cacciata con tanto entusiasmo nell’avventura
del referendum, senza minimamente prevedere l’ipotesi di non farcela.
Con il risultato che adesso sono (o forse siamo) tutti nei guai fino
al collo. Perché è ovvio che il 50,4 % di non votanti è solo un aggregato
composito, come non può non esserlo qualsiasi aggregato di negazioni, e
non rappresenta certo un trionfo del proporzionalismo. Ma è anche
vero che i cultori del maggioritario hanno preso una botta tale da impedirgli
di fare, nell’immediato futuro, granché. E le riforme? Be,
le riforme le faremo un’altra volta. Non c’è che dire, hanno fatto
proprio un bel lavoro.
25.04.’99