Prevenire o attizzare

La caccia | Trasmessa il: 10/18/2009


    Non so se abbiate notato la coincidenza, ma proprio il giorno in cui veniva compiuto in Italia il primo attentato kamikaze a matrice islamica – certo, un attentato, come si è detto, fatto in casa, nelle motivazioni dei cui protagonisti le istanze politiche si sovrapponevano al disagio mentale, ma poteva comunque risolversi in una tragedia – quel giorno, dunque, la ministra Carfagna, una donna su cui molto si è chiacchierato, ma poco si è detto in termini politici, anche perché ben poco di politico ha fatto di cui valga la pena di dire, annunciava un suo disegno di legge volto a impedire che nelle scuole italiane si indossino il burqa o il niqab, che è, mi dicono, una variante del velo islamico che nasconde integralmente il volto. Nessun rapporto diretto, naturalmente, tra i due episodi, ma qualche collegamento di natura generale non dovrebbe essere difficile da trovare. Perché se è vero che un attentato, suicida o meno, è un gesto che nasce da una serie complessa di motivazioni, che vanno indagate e comprese caso per caso, è anche vero che il terreno sul quale allignano azioni del genere è certamente il risentimento di chi si sente vittima di una ingiustizia o conculcato in qualche valore (l'odio, se preferiamo mutuare il linguaggio dei Salvini e dei De Corato, ma l'odio è pur sempre un sentimento personale e non si può spiegare solo in termini astratti, come quelli del “conflitto di civiltà”). E non c'è modo migliore di attizzare quel genere di risentimento che annunciare a gran voce dei provvedimenti palesemente antislamici come quelli proposti, nella loro futilità, dalla ministra Carfagna.
    Per quanto mi riguarda – lo saprete – non sono un ammiratore particolare del burqa, del niqab, o simili aggeggi. Li considero, anzi, tipici strumenti di oppressione, introiettati da una cultura tradizionale che, ne sono sicuro, non reggerà all'evoluzione dei tempi e al diffondersi, anche tra quelle popolazioni, dei lumi della ragione laica. Non mi sembra, tuttavia, che il modo migliore di affrettare questo esito sia quello di vietarli per legge. Soprattutto, tanto per passare dall'astratto al concreto, nell'ambito della scuola italiana.
    Mi spiego. Ci sono senz'altro degli ottimi motivi per cui è preferibile che le studentesse non vadano a scuola col burqa. Ma ce ne sono di altrettanto buoni – consentitemi la frivolezza – che sconsigliano che ci vadano, per dire, in bikini, e non mi risulta che la ministra abbia preso, o intenda prendere, provvedimenti in merito. Ed è ovvio: quel problema non esiste perché nessuna, che io sappia, ha rivendicato finora il diritto di entrare in aula in quella tenuta. Ma lo stesso può dirsi – in realtà – per il burqa. Non esiste nelle scuole italiane un problema del burqa (o del niqab), salvo, forse, qualche caso isolato di cui non sono a conoscenza. Quegli indumenti sono indubbiamente legati a una tradizione islamica, ma non sono caratteristici di tutto l'Islam, e non sono previsti, in particolare, dalle costumanze dei musulmani arabi, quasi tutti egiziani e maghrebini, che si sono stabiliti nel nostro paese. Tra loro il burqa è sconosciuto e il niqab, per ora, raro e alle donne si impone, più che altro, il velo sui capelli, che alla Carfagna, l'ha detto lei e la Gelmini è d'accordo, non dà fastidio (a me un po' sì, veramente, ma sull'opportunità di proibirlo vale il discorso di prima). L'Islam è una realtà complessa e i suoi costumi non coincidono al cnto per cento con quelli dell'Afghanistan tribale.
    E allora, perché una ministra della Repubblica ha deciso di promulgare quel divieto? Perché i costumi cambiano, i flussi migratori anche e prevenire è sempre meglio che reprimere? Mah... Io, personalmente, azzarderei un'altra ipotesi: che l'abbia fatto, cioè, proprio perché, ai fini pratici, è un atto irrilevante. Perché vi ha visto la possibilità di esprimere a buon mercato un atteggiamento che oggi, sul piano politico, rende. Senza rischi, perché i difensori del burqa sarebbero stati presumibilmente ben pochi, e con il vantaggio di darsi una patina progressiva, che a chi fa parte di un governo come il nostro non può che fare piacere. Perché è sempre comodo fare i liberali sulla pelle degli altri e poi, non dobbiamo nascondercelo, oggi in Italia le manifestazioni di ostilità, anche dissennata, verso gli stranieri e i diversi sono ben viste da una cittadinanza che, nella consapevolezza della bassura in cui vive, accoglie con sollievo ogni proposta di capri espiatori. Perché non sarà un caso se oggi, a Milano, la città che, dopo almeno trent'anni di integrazione abbastanza pacifica, nega ai suoi cittadini islamici persino un luogo dove pregare, stia sorgendo, dalle parti di San Siro, un ghetto arabo e che da quel ghetto provengano tanto l'attentatore di via Perrucchetti quanto i suoi supposti complici. E non sarà un caso, soprattutto, se un giornale cittadino (le pagine milanesi della “Repubblica”, mica “Libero” o il “Giornale) parla di quel ghetto come di un luogo di oppressione e paura, in cui a essere oppressi e spaventati, però, sono i milanesi, i cui bambini ai giardinetti di piazzale Selinunte “piangevano e scappavano quando vedevano i lunghi abiti neri” delle mamme arabe “e quella maschera sul viso come i fantasmi dei loro incubi peggiori,” finché “un giorno di tre anni fa ... a difendere le donne in niqab arrivarono mariti e fratelli che, urlando in arabo e agitando grossi bastoni, liberarono per sempre il parco dalle mamme occidentali, costrette da allora a frequentare il parco giochi di via don Gnocchi a un chilometro più in là”. Da allora, pare, il quartiere è colonizzato dagli integralisti, gli italiani hanno venduto le case sottocosto agli arabi, gli scantinati si sono trasformati in moschee clandestine e “durante il Ramadan le notti diventano più violente, volano i coltelli e i cocci di bottiglie”. Una ricostruzione storica su cui ci sarebbe forse qualcosa da eccepire, ma potrà essere apprezzata da chi ritiene che l'emarginazione e il degrado offendono non chi li impone, ma chi li subisce e comunque sono loro a volere così e noi siamo soltanto le vittime.
    Capirete perché sindaca e assessori facciano a gare per escogitare sempre nuovi pretesti per negare la moschea, perché la scuola araba non abbia ancora una sede e perché la preghiera del venerdì venga considerata soprattutto un problema di ordine pubblico. E perché la Carfagna, nel suo piccolo, vieti il burqa dove nessuno pretende di indossarlo.
    I nostri politici, si sa, non hanno il dono della lungimiranza e non si accorgono che lusingando in quel modo il loro elettorato creano le condizioni perché il risentimento e il disagio crescano fino al punto di non ritorno. Che poi a molti di costoro andrà anche benissimo, perché potranno spiegare che loro l'avevano sempre detto e imporre a tutti, indigeni e immigrati, il proprio particolare modello di convivenza. Che dubito possa piacere a tutti coloro che oggi l'invocano, ma così va il mondo e non diteci poi che non vi avevano avvertiti.
C. O.


    Nota

    L'articolo cui si allude è apparso su “Repubblica”, edizione milanese, il 14.10 u.s., a firma Sandro de Riccardis. Si intitola “Nel triangolo dei mascherati”.