Povera Emma

La caccia | Trasmessa il: 10/29/2006


    Non so quanti abbiano oggi presente la figura di Emma Goldman, Red Emma, “Emma la rossa”, come ancora affettuosamente la si ricorda. Fu una donna singolare. Pur appartenendo a una famiglia della piccola borghesia ebraica (era nata nel 1869 presso Kovno, in Russia) ne aveva rifiutato in blocco i poveri privilegi sociali e il sistema di valori su cui si reggeva. A San Pietroburgo fu al fianco dei nichilisti, negli Stati Uniti, dove emigrò nel 1886, si distinse nelle lotte per le otto ore e nelle reazioni alla la strage di Chicago del 1887. A New York entrò in contatto con il movimento anarchico organizzato, strinse un sodalizio di vita di lotta con Alexander Berkman, con cui finì in galera con la solita accusa di terrorismo, subì senza fiatare le puntuali accuse di estremismo e le prese di distanza che, come d’uso anche allora, le furono riservate, rientrò in Russia per aderire alla Rivoluzione di Ottobre, se ne allontanò appena capì che direzione stavano prendendo gli eventi, fu espulsa da diversi paesi europei e tornò negli USA, dove continuò, fino all’anno della sua morte (1940), l’attività pubblicistica e di agitazione.

    Emma non è comunemente ricordata come teorica: in lei si vede piuttosto un’eroina del movimento libertario, per la coerenza del suo impegno e il ruolo carismatico che vi rivestì. Eppure fu tra le prime ad arrovellarsi sul nesso tra impegno rivoluzionario e morale privata, sulla posizione della donna nella coppia, sulla dialettica tra dovere e felicità: tutte tematiche, allora, di assoluta avanguardia e oggi tutt’altro che definitivamente chiarite. Purtroppo non molto della sua opera è stato tradotto in Italia, e meno ancora se ne può reperire in libreria.

    A Milano, tuttavia, un tentativo lo si può fare. Nella nostra città c’è di tutto e c’è anche una libreria anarchica. La conoscerete anche voi: si trova in posizione centrale, ai margini del quartiere di Brera, e sui suoi scaffali non mancano, tra molto altro, i classici del pensiero libertario. Con gli anni il clima del posto si è forse un po’ trasformato, non è più così “militante” come agli inizi, ma sono cose che succedono (qualcosa di simile è accaduto anche alla nostra radio) e l’ispirazione libertaria non vi è venuta meno. Sappiamo tutti che bisogna sapersi trasformare per tenersi al passo con i tempi (anche se a chi ha la mia età questa esigenza può dare più fastidio che ad altri), ma quel che conta è riuscire a conservare, nel cambiamento, la propria identità, opponendosi alle pressioni del pensiero unico, alle facili tentazioni di involuzione ideologica, alle mode del consumismo, cogliendo sotto il loro allettante bagliore il tentativo di riportarci in quella notte buia in cui tutte le vacche sono nere, ma non per questo possono sperare di sfuggire al macellaio.

    A proposito di mode consumistiche che allignano in città. Non so voi, ma a me una di quelle che danno più fastidio è quella dell’happy hour, l’aperitivo con buffet offerto ormai da tanti pubblici locali. Non che io sia alieno alle gioie dell’aperitivo, dio ne scampi: molti sostengono, anzi, che vi indulga anche troppo. Ma mi infastidisce, oltre alla volgarità e alla qualità di quei buffet, che non superano spesso lo stadio degli avanzi riciclati, l’aspetto vagamente coattivo della faccenda, quello che ne ha fatto da un momento di intrattenimento amichevole una sorta di obbligo sociale. Lo si può cogliere, credo, nell’aspetto affatto intercambiabile dei partecipanti, nella loro omogeneità fisionomica e vestimentale, nella la studiata ricerca di un look, come si dice, in cui sembra riflettersi una sorta di vuoto interiore. Vecchio barbogio qual sono, non riesco a entusiasmarmi di fronte a quelle aggregazioni di bei giovani, belle giovani e bellissimi telefonini.

    Eppure è una moda che si diffonde, non c’è bar che non organizzi la cerimonia e poco per volta l’happy hour ha cominciato a fare la sua comparsa anche in tutt’altre sedi: se ne celebrano, oggi, anche nelle piscine, nelle boutiques di moda, nelle gallerie d’arte e, credeteci o no, nelle librerie.

    Tra le librerie che non disdegnano questa offerta impropria, ho scoperto, c’è anche la libreria anarchica di cui sopra. “Tutte le sere dalle 18,30 alle 21” si legge su un cartiglio affisso in vetrina, “aperitivo con vini, formaggi e salumi”.

    Be’, mi direte, niente di male. Probabilmente quei bravi compagni, che sanno il fatto loro, non offriranno le solite schifezze e che c’è di male nel farsi un bicchiere di buon rosso e una fettina di coppa o di quartirolo ben stagionato in un ambiente piacevole? Se proprio si desidera un aperitivo, in fondo, non è meglio assumerlo tra i cultori dei libri piuttosto che veline e palestrati inclini a votare per Forza Italia? Il vino rimedio al dolore diede agli uomini il figlio di Semele e di Zeus e tra gli imperativi morali dell’anarchismo non c’è quello di essere astemi. Il che è vero, naturalmente. Ma perché mai, continuo a chiedermi da quando ho letto quel cartiglio, la porzione di libreria in cui si mangia e si beve, come vi ci si precisa, è stata battezzata “Mescita vini Emma Goldman”? In memoria forse di una particolare propensione di Red Emma per quei prodotti? Dalle fonti non mi risulta. Per celebrare il suo rifiuto dell’ascetismo e del bigottismo rivoluzionario? Può essere, ma mi pare tirata un po’ per i capelli. Io, per l’amara sospettosità che ormai mi distingue, non posso fare a meno di vederci una specie di gioco a tirare il sasso e ritrarre la mano, nel senso di chi dice “sì, noi ci evolviamo, ci adeguiamo ai tempi, facciamo la happy hour, ma la intestiamo a una delle nostre icone ideologiche e così mostriamo di essere sempre quelli”. Con una strizzatina d’occhio e un risolino di complicità.

    Vedete, non voglio metterla giù troppo dura, si sa che ormai in questo campo succede di tutto e nessuno è veramente esente dal rischio che il suo nome non sia assunto a insegna di un esercizio commerciale. A Milano, per restare in tema, si può cenare in un Ristorante Pancho Villa e bere in un Siddharta Café. Non credo, però, che quei locali siano gestiti dalla sezione lombarda dell’Ejercito del Norte o da un delegato del Dalai Lama. Ho come l’impressione che le relative intestazioni siano state adottate più per una loro suggestività che come segno di omaggio. Come se, accanto ai cibi e alle bevande, i responsabili volessero venderci, in un certo qual senso, l’immagine romantica del leader campesino o quella mistica del Buddha, magari rivissuta in chiave new age,. Che è un’operazione, come dire, un po’ surrettizia, anche se lecita, visto che ormai tutto, ma proprio tutto, è in vendita, comprese le immagini e i riferimenti culturali. Ma ciò non significa, tuttavia, che si debba trovarla simpatica. Specie se chi la compie è legato, come nel caso, da una qualche solidarietà ideologica con chi la subisce, se si considera parte della stessa storia. Perché allora la sua non è solo una disinvolta operazione di avvaloramento improprio: è una mossa che comporta il rischio di mettere in vendita, senza neanche accorgersene, un pezzettino della propria identità. Quella identità cui invece, nei brutti tempi in cui viviamo, dovremmo tenerci attaccato come la proverbiale ostrica allo scoglio. È l’unico patrimonio di cui disponiamo e non si capisce perché dissiparlo con tanta prodigalità. E poi, nel grande mercato dell’ideologico monetizzato, vale proprio la pena di mettersi nei panni dei venditori?