Più di duemila parole

La caccia | Trasmessa il: 01/20/2002



“Un’icona,” assicura un manifesto pubblicitario che ho avuto occasione di vedere in una delle mie rare uscite di questi giorni, “vale più di duemila parole.”   E non si tratta, per quanto possa sembrarlo, della pubblicità di uno di quei monasteri bizantini in cui il culto delle icone sacre si sposa con il più rigoroso voto del silenzio per i cenobiti che ivi fuggono il mondo.   Qui si allude a icone assai più moderne, anche se altrettanto venerate.  Sotto lo slogan, di fatto, compare la riproduzione in formato gigante di un telefono cellulare di ultima generazione, di quelli dotati di schermo, o, come credo che più correttamente si dica, di display.  E sul display, invece delle parole costitutive di quei “messaggini” che i fortunati proprietari di quegli artefatti sono soliti scambiarsi, figura appunto un’icona, l’immagine stilizzate di un cuoricino, di quelli che, per convenzione ormai consolidata, alludono più alla tenerezza dei sentimenti che alle condizioni cardiache del titolare.  Se ne deduce, naturalmente, che procurandosi quello specifico modello di telefonino sarà possibile inviare ai propri corrispondenti, invece di uno scontato messaggio verbale, una ben più moderna e pregnante comunicazione di tipo iconico.  Che vale, appunto, ben più di duemila parole.
        Sarà.  Personalmente non riesco a farmi venire in mente quali altre immagini si potrebbero utilizzare in questo tipo di comunicazione.  Un cuoricino assicura al destinatario, o alla destinataria, che il mittente è ancora ebbro d’amore, ma poche stilizzazioni grafiche godono di altrettanta univocità semantica.  Si potrebbe, forse, impiegare il profilo di una pentola fumante per segnalare che è arrivato il momento di buttare la pasta, o il glifo dell’euro per ricordare ai debitori distratti che è giunto il momento di onorare i propri impegni, anche se il risultato non mi sembra così sicuro.  Ma dev’essere colpa mia, che non m’intendo di queste cose.  Di fatto di immagini dal significato convenzionalmente accettato a livello di gruppo ne esistono a centinaia (basta dare un’occhiata allo schermo di qualsiasi computer) ed è probabile che grazie a esse si possa comunicare, da un display all’altro, qualsiasi cosa.
        Sì, ma perché?  Perché un’icona, come assicura lo slogan, vale davvero più di duemila parole?  E chi lo dice?  Chi ha deciso che l’immagine di un cuoricino garantisce dell’affetto di chi l’ha mandata molto di più che una pur succinta dichiarazione verbale?  Quest’ultima, certo, bisogna inventarsela, e non limitarsi a sceglierla da un catalogo o da un menù (come suppongo avvenga nel caso in questione), ma questo è appunto il bello della comunicazione verbale.  La parola, diceva un antico che se ne intendeva, è un piccolo dio, che pur avendo esile il corpo dispone di forza tremenda, che può rendere grande il piccolo e piccolo il grande e resta comunque lo strumento primario di cui gli uomini si sono serviti per costruire nei millenni la loro comunità.  Di chi, per comunicarmi qualsiasi cosa, non sa trovare le parole adatte, sia pure le più banali, ma preferisce servirsi di una serie di simboli preconfezionati, di messaggi standard definiti da altri, sono autorizzato a pensare che si tratti di un individuo affatto privo di intelligenza e comunicativa, con cui per nessun motivo desidererei avere  a che fare.  Prendetela pure per la dichiarazione interessata di chi, finora, ha vissuto essenzialmente spacciando parole, ma io resto convinto che una parola ben detta valga più di duemila icone.
        Già.  Ma c’è un particolare di cui bisogna comunque tener conto.  Chi ti manda un’icona possiede quel tipo di telefonino lì.  Che è – suppongo – un ultimo modello, dotato di poteri e capacità di cui la concorrenza, per ora, non dispone, il che pone indiscutibilmente i suoi possessori su un piano più alto di coloro che sul display del proprio cellulare possono far comparire soltanto degli antiquati simboli alfabetici.  Un’icona vale più di duemila parole perché il telefonino capace di inviartela vale (e costa) più di un telefonino che no.
        Che, nel mondo in cui viviamo, il valore di un individuo non vada più cercato nella capacità di fare o di dire, ma si misuri, senza residui, sul prezzo degli oggetti che possiede, naturalmente lo sapevamo già.  Ma da un po’ di tempo non ce lo lasciano proprio dimenticare.

20.01.’02