Il peso delle vocali

La caccia | Trasmessa il: 12/04/2005



Ci informa Francesco Merlo su  “Repubblica” di mercoledì scorso che tale John Sutherland, professore di letteratura inglese all’Università di Londra, ha sfidato i suoi studenti a ridurre l’Ulisse di Joyce a 160 battute, che è la capacità massima di un sms, e che costoro, invece di pensare all’opportunità di cambiare docente, alla sfida si sono appassionati, tanto che ne è nato “un avventuroso gioco alla moda” che oggi fa furore su Internet, in appositi siti attraverso i quali una quantità di brave persone si sforza di far rientrare in quella precisa misura Conrad e I promessi sposi,  Moby Dick  e Dante,  o quali altri testi possa offrire la tradizione narrativa mondiale.

        La notizia, in sé, non sembra tale da meritare la prima pagina, che pure le è stata attribuita.  Giochi di questo genere, a prescindere da Internet e dalla capacità degli sms, se ne sono sempre fatti: ne testimonia, tra gli altri, Umberto Eco, che nella sue rubriche si è diffuso spesso sul piacere che taluni gruppi intellettuali provano nel ridurre la trama delle Ultime lettere di Jacopo Ortis a uno scorrettissimo “Lei non gliela dà e lui si ammazza” o quella di Casablanca a un salace “Due amici riescono a liberarsi di una donna molesta”.  È un esercizio, tutto sommato, innocuo e in certi casi non completamente futile, nel senso che lo sforzo di brevità può condurre – se tutto va bene – a dare risalto a quelle strutture di fondo del testo che l’effusione narrativa, talvolta, tende a celare.  Volendo (e senza esagerare) gli si potrebbe riconoscere persino una certa valenza critica, perché di una narrazione dalla quale non sia possibile estrapolare in nessun modo un riassunto sarà sempre opportuno diffidare.  E in ogni caso, della diffusione di un gioco che presuppone la conoscenza di un certo numero di pilastri della letteratura mondiale e invita a lavorarci sopra non dovrebbe lamentarsi nessuno cui la cultura letteraria stia un poco a cuore.

        Macché.   L’articolista è preoccupatissimo.  Per lui il fenomeno significa che “il pensiero narrante, l’affabulazione è stata consegnata ai digitantes … che scrivono ‘xché’ e non ‘perché’, ‘nn’ invece di ‘non’  … ‘pm’ per ‘pomeriggio’ … ‘cmq’ per ‘comunque’”  con il risultato che “la poesia cosmica e intimistica di Leopardi” diventa “una sequela di suoni consonantici, un’implosione fonica :’Elnfrgr mdlc in qst mr’”. L’idea che presiede a queste deformazioni, a suo avviso, “è che le vocali siano il grasso della comunicazione” e che “in una visione anoressica del mondo, anche le belle frasi, come le belle ragazze, dovrebbero perdere l’adipe a favore del pensiero palestrato”.  Quei fonemi, infatti, sarebbero tutte espressioni del dominio del “pensiero corto”, che ha ormai sostituito quello debole nell’andazzo culturale corrente, per cui “è come se bisognasse vergognarsi di essere pensatori, di tenere il pensiero come si detiene un’arma, una spada, una scimitarra, una durlindana che sarebbe meglio intanto accorciare e poi magari far sparire”, perché “nella filosofia del pensiero corto, pensare è … ritardare il rapporto con le cose e dunque chi pensa non vive, chi articola il pensiero disarticola la vita.”

        Siamo appena all’inizio, ma forse non è il caso di seguire più a lungo l’autore in questo suo personale delirio.  Io, vi confesso, non saprei dirvi se la prospettiva che incombe sul mondo sia quella di un pensiero del tutto disarticolato, né, d’altronde, nella mancanza di precisi riferimenti, ho capito a chi si rivolgesse la polemica (e questo tipo di articoli, si sa, si scrivono sempre contro qualcuno).   Immagino che per “pensiero corto” si intenda un modo di ragionare apodittico, che procede per affermazioni autogiustificantisi e rifugge dalle strutture logiche complicate, cioè un non pensiero che, nella concezione dell’intellettuale italiano medio, è sempre quello degli altri e quando gli intellettuali cominciano a rivolgersi l’un l’altro accuse di analfabetismo il saggio, notoriamente, si leva di torno.   Ma è curioso, lo ammetterete, un modo di procedere che desume la “brevità” del pensiero dalla brevità delle parole che si impiegano per renderlo pubblico e misura questa brevità dal numero delle lettere con cui le si scrive, che significa passare senza se e senza ma dal campo della logica a quello dell’ortografia.   Omettere le vocali nella scrittura è pratica largamente in uso tra i parlanti una quantità di lingue (tutte quelle semitiche, per esempio, o quelle che, pur di altra origine, utilizzano comunque l’alfabeto arabo) e anche se non è prevista dall’ortografia italiana corrente è comunque omogenea al principio per cui, scrivendo, non si cerca mai di indicare tutte le opposizioni fonetiche di una parola, ma si confida nella capacità di integrazione di un interlocutore dotato della stessa cultura di base.  Così, scrivendo in italiano non si notano tutti gli accenti, né si distinguono le e e le o aperte e chiuse, o la s e la z sorde e sonore, ma questo non crea particolari difficoltà di comprensione.

Il fatto è che anche nello scrivere, come in qualsiasi altra attività, vale un certo criterio di economia, per cui l’eccessivo accumulo dei particolari rende il prodotto meno perspicuo, e questo criterio, naturalmente, evolverà a seconda delle necessità e delle disponibilità del materiale scrittorio.  Se per un messaggio ho a disposizione solo 160 caratteri, be’, una certa selezione dovrò ben farla e l’unico criterio di liceità, alla fin fine, dipenderà dal fatto che i destinatari capiscano o meno quello che intendevo comunicargli.   Ma le parole, vivaddio, restano sempre le stesse comunque le si scriva e identico resterà il loro valore semantico.  Il rapporto tra pensiero e linguaggio è di tipo dinamico, non referenziale, e ignora questo tipo di problemi.  Il “peso” di un’affermazione non ha niente a che fare con quello del supporto su cui la si scrive (per cui una cazzata incisa su un masso di granito, o stampata su un quotidiano ad alta tiratura, resta sempre una cazzata, mentre un’affermazione geniale scarabocchiata su un foglietto qualsiasi non perde la sua validità) e l’articolazione del pensiero non dipende (ripeto, non dipende) dalla lunghezza materiale delle parole.

        Sembra facile, no?   Ma la cultura italiana, fedele a una tradizione che, chissà perché, continua a chiamare umanistica, crede nelle parole e nei paroloni, nella frase diffusa ed effusa, nel ragionamento che non ha fretta di giungere alla conclusione, anche perché non è detto che una conclusione ci sia.  Vede in ogni sforzo di concisione un atto di lesa maestà e in ogni tentativo di adeguamento ortografico un alto tradimento ai danni del Petrarca, alle cui consuetudini in merito ci siamo legati da sei secoli .  Crede, più in generale, nell’utilità di allungare quanto più possibile il brodo del discorso, nel tirare almeno per un quarto d’ora quello che si potrebbe benissimo sbrigare in cinque minuti, perché altrimenti i suoi praticanti, che su esercizi di questa fatta hanno basato la propria educazione, non avrebbero nulla da fare e finirebbero inesorabilmente per morire di fame.   È per questo, probabilmente, e non per altro, che un noto critico letterario sente il bisogno di impiegare due colonne di stampa per spiegarci che per scrivere l’Ulisse di Joyce servono più di 160 battute.  Una informazione preziosa di cui lo ringraziamo di cuore, ma, francamente, lo sapevamo già.