Forse vi ricorderete come, qualche settimana fa, mi chiedessi come avrebbero
fatto i distributori nostrani a rendere in italiano il titolo di un film
che nell’originale si intitolava semplicemente Troy, nel senso della guerra
di Troia. Mi è bastato, per scoprirlo, passare per caso davanti a
un locale dove il capolavoro in questione è annunciato a giorni: se la
sono cavata nel modo più semplice possibile e quel titolo resterà, anche
in Italia, così com’è in inglese. E anche se, come vi ho già confidato,
non mi considero un purista, la cosa un po’ mi ha dato fastidio.
Il purismo, in effetti, non c’entra. Come
ben insegna Alessandro Verri nella sua Rinunzia avanti notaro, ai vocaboli
stranieri si può (si deve) ricorrere quando, per un motivo o per l’altro,
non è disponibile un corrispondente italiano. Ma se una tradizione
è possibile, non si vede perché non ricorrervi: è un obbligo che si ha,
se non con la propria lingua, con i destinatari dell’opera, che non sono
tenuti a essere poliglotti. È vero che in tema di film esiste una
scuola di pensiero che sostiene che non se ne dovrebbero tradurre nemmeno
i dialoghi, limitandosi ad affiancarli – come si fa altrove – con opportuni
sottotitoli, ma una volta deciso di far parlare gli attori in italiano,
quella di lasciare il titolo nell’originale è un’opzione ancora più sciocca
e il fatto che, ormai, la si adotti continuamente resta incomprensibile.
Ammetto che la versione, talvolta, è impossibile (pensiamo a titoli
tipo Blade Runner) o semplicemente difficile, visto che “Troia”, in questa
fase di crisi degli studi classici, potrebbe suscitare incomprensioni polisemiche
e riferimenti indebiti, ma certe difficoltà non dovrebbero essere insormontabili
per chi, tutto sommato, è pagato per risolverle. E poi la tradizione
ammette, in materia, una certa libertà. Se è stato possibile – per
citare un po’ a caso – trasformare titoli enigmatici come North by North-West
e Midnight Cowboy in Intrigo internazionale e Un uomo da marciapiede, non
si vede perché non si potrebbe escogitare qualche possibile alternativa
italiana a Troy. Non è detto neanche che la trasformazione debba
risolversi in un peggioramento, o in un tentativo di prendere per il bavero
gli spettatori paganti. Se una volta si esagerava, banalizzando Citizen
Kane in Terzo potere e sconciando Domicile conjugal di Truffaut in
Non drammatizziamo, è solo questione di corna, ogni tanto si riusciva ad
azzeccare un Ombre rosse, che, con tutto il rispetto per John Ford e i
suoi sceneggiatori, è indubbiamente meglio di The Stagecoach. E
comunque non si vede quali difficoltà presentino espressioni come Big Fish,
Coffee & Cigarettes, The Company e Lost in Translation, che pure, come
potrete verificare voi stessi sulla pagina degli spettacoli, si sono rivelate
impermeabili agli sforzi di chi avrebbe dovuto tradurle.
In realtà, se – come suggerisce la Coppola
con l’ultimo titolo citato – nella traduzione qualcosa si perde sempre,
per chi non sa la lingua, a lasciare l’originale così com’è si perde
tutto. Parlerò forse pro domo mea, perché ho fatto quel mestiere
per anni, ma è ovvio che un testo in tutto o in parte incomprensibile perde
molta della sua utilità. E del testo narrativo (anche in variante
cinematografica) il titolo non è solo un’etichetta, ma una parte integrale.
Ne rappresenta una chiave, un’indicazione preziosa di corretta lettura
secondo le intenzioni dell’autore (cosa c’entrerebbe il vento, se no,
con le vicende sentimentali di Rhett Butler e Rossella O’Hara?), il che
significa che bisogna porre molta, moltissima cura nel non tradirlo, in
un senso o nell’altro.
Questo, naturalmente, se per il testo in quanto
tale si ha un pur vago interesse. Se si pensa, che, anche a livello
del consumo di massa cui certi prodotti sono destinati, esso abbia comunque
una sua, sia pur minima, dignità, una valenza culturale qualsiasi. Se
si pensa, per tornare al nostro punto di partenza, che la storia di Achille
e di Ettore, pur se spoglia degli esametri di Omero e narrata nel linguaggio
della cinematografia di consumo, possa avere per i suoi fruitori di oggi
un qualche pur labile significato.
Quando della cultura non ce ne potrebbe importare di meno, quando il prodotto
è concepito soltanto come merce per il mercato, be’, allora del titolo
(anzi, di tutto il testo) si può fare assolutamente tutto ciò che si vuole.
Lo si può tagliare, raffazzonare, vilipendere o prostituire, come
si è fatto per anni con i prodotti della narrativa popolare (non avete
idea dei problemi che ho avuto come traduttore, cultore e studioso di gialli)
e come si fa ancora, a quanto pare, con le produzioni cinematografiche
più prestigiose. E naturalmente nessuna offesa maggiore può arrecarsi
a un testo che quella di lasciarlo (per snobismo, ignoranza, pressappochismo
o astuzia commerciale) incomprensibile a coloro cui è proposto. Significa
negarne a priori il significato. Ma tant’è: la merce non si giudica
in base al significato che può avere per i consumatori, ma solo in base
alla sua disponibilità a essere comprata e venduta, che non è esattamente
la stessa cosa. E nessuno si rende conto che ogni titolo non tradotto
è un passettino in più verso l’analfabetismo diffuso.
18.04.’04