Perso nell’originale

La caccia | Trasmessa il: 04/18/2004




Forse vi ricorderete come, qualche settimana fa, mi chiedessi come avrebbero fatto i distributori nostrani a rendere in italiano il titolo di un film che nell’originale si intitolava semplicemente Troy, nel senso della guerra di Troia.  Mi è bastato, per scoprirlo, passare per caso davanti a un locale dove il capolavoro in questione è annunciato a giorni: se la sono cavata nel modo più semplice possibile e quel titolo resterà, anche in Italia, così com’è in inglese.  E anche se, come vi ho già confidato, non mi considero un purista, la cosa un po’ mi ha dato fastidio.

       Il purismo, in effetti, non c’entra.  Come ben insegna Alessandro Verri nella sua Rinunzia avanti notaro, ai vocaboli stranieri si può (si deve) ricorrere quando, per un motivo o per l’altro, non è disponibile un corrispondente italiano.  Ma se una tradizione è possibile, non si vede perché non ricorrervi: è un obbligo che si ha, se non con la propria lingua, con i destinatari dell’opera, che non sono tenuti a essere poliglotti.  È vero che in tema di film esiste una scuola di pensiero che sostiene che non se ne dovrebbero tradurre nemmeno i dialoghi, limitandosi ad affiancarli – come si fa altrove – con opportuni sottotitoli, ma una volta deciso di far parlare gli attori in italiano, quella di lasciare il titolo nell’originale è un’opzione ancora più sciocca e il fatto che, ormai, la si adotti continuamente resta incomprensibile.  Ammetto che la versione, talvolta, è impossibile (pensiamo a titoli tipo Blade Runner) o semplicemente difficile, visto che “Troia”, in questa fase di crisi degli studi classici, potrebbe suscitare incomprensioni polisemiche e riferimenti indebiti, ma certe difficoltà non dovrebbero essere insormontabili per chi, tutto sommato, è pagato per risolverle.  E poi la tradizione ammette, in materia, una certa libertà.  Se è stato possibile – per citare un po’ a caso – trasformare titoli enigmatici come North by North-West e Midnight Cowboy in Intrigo internazionale e Un uomo da marciapiede, non si vede perché non si potrebbe escogitare qualche possibile alternativa italiana a Troy.  Non è detto neanche che la trasformazione debba risolversi in un peggioramento, o in un tentativo di prendere per il bavero gli spettatori paganti.  Se una volta si esagerava, banalizzando Citizen Kane in Terzo potere e sconciando Domicile conjugal di Truffaut  in Non drammatizziamo, è solo questione di corna, ogni tanto si riusciva ad azzeccare un Ombre rosse, che, con tutto il rispetto per John Ford e i suoi sceneggiatori, è indubbiamente meglio di The Stagecoach.   E comunque non si vede quali difficoltà presentino espressioni come Big Fish, Coffee & Cigarettes, The Company e Lost in Translation, che pure, come potrete verificare voi stessi sulla pagina degli spettacoli, si sono rivelate impermeabili agli sforzi di chi avrebbe dovuto tradurle.

       In realtà, se – come suggerisce la Coppola con l’ultimo titolo citato – nella traduzione qualcosa si perde sempre, per chi non sa la lingua, a lasciare l’originale così com’è si perde tutto.  Parlerò forse pro domo mea, perché ho fatto quel mestiere per anni, ma è ovvio che un testo in tutto o in parte incomprensibile perde molta della sua utilità.  E del testo narrativo (anche in variante cinematografica) il titolo non è solo un’etichetta, ma una parte integrale.  Ne rappresenta una chiave, un’indicazione preziosa di corretta lettura secondo le intenzioni dell’autore (cosa c’entrerebbe il vento, se no, con le vicende sentimentali di Rhett Butler e Rossella O’Hara?), il che significa che bisogna porre molta, moltissima cura nel non tradirlo, in un senso o nell’altro.

       Questo, naturalmente, se per il testo in quanto tale si ha un pur vago interesse.   Se si pensa, che, anche a livello del consumo di massa cui certi prodotti sono destinati, esso abbia comunque una sua, sia pur minima, dignità, una valenza culturale qualsiasi.  Se si pensa, per tornare al nostro punto di partenza, che la storia di Achille e di Ettore, pur se spoglia degli esametri di Omero e narrata nel linguaggio della cinematografia di consumo, possa avere per i suoi fruitori di oggi un qualche pur labile significato.

Quando della cultura non ce ne potrebbe importare di meno, quando il prodotto è concepito soltanto come merce per il mercato, be’, allora del titolo (anzi, di tutto il testo) si può fare assolutamente tutto ciò che si vuole.  Lo si può tagliare, raffazzonare, vilipendere o prostituire, come si è fatto per anni con i prodotti della narrativa popolare (non avete idea dei problemi che ho avuto come traduttore, cultore e studioso di gialli) e come si fa ancora, a quanto pare, con le produzioni cinematografiche più prestigiose.  E naturalmente nessuna offesa maggiore può arrecarsi a un testo che quella di lasciarlo (per snobismo, ignoranza, pressappochismo o astuzia commerciale) incomprensibile a coloro cui è proposto.  Significa negarne a priori il significato.  Ma tant’è: la merce non si giudica in base al significato che può avere per i consumatori, ma solo in base alla sua disponibilità a essere comprata e venduta, che non è esattamente la stessa cosa.   E nessuno si rende conto che ogni titolo non tradotto è un passettino in più verso l’analfabetismo diffuso.


18.04.’04