Perché non ci prova lei

La caccia | Trasmessa il: 05/08/2005



“Perché non ci provi?” mi chiede la ragazza in mutande dal megamanifesto affisso proprio davanti a casa mia.  Che cosa esattamente debba provarmi a fare non me lo dice, ma non è necessario.  Nell’italiano corrente,  quella espressione, in forma assoluta, di solito si usa per alludere a un approccio sessuale.  E il fatto che la ragazza sia in mutande, nel senso che non indossa proprio nient’altro, non può che avvalorare l’ipotesi.
        Oh dio, intendiamoci.  La ragazza è in mutande, ma la sua immagine non offende certo la modestia.  Ha cura di nascondere il seno con le braccia conserte e persino gli occhi sono coperti da una ciocca di capelli, come a evitare il rischio di trasmettere un messaggio troppo esplicito.  Anche le mutande, almeno viste dal davanti, non sembrano nulla di speciale: saranno forse un po’ bassine in vita, ma il modello, per dimensioni e opacità, è di quelli che persino mia nonna avrebbe approvato.  L’unica cosa che quella creatura esibisce, in pratica, è l’ombelico, ma l’ombelico, oggi, lo esibiscono le educande e nessuno ci trova niente da dire.  Tra tutte le icone che vediamo appiccicate sui muri, la sua, nonostante l’abbigliamento così drasticamente ridotto, è figurativamente una delle più caste.
        Tuttavia…  tuttavia resta sempre l’immagine di una ragazza in mutande, che mi chiede perché non ci provo: che ostenta, cioè, pur con discrezione, una offerta sessuale.  E lo fa, evidentemente, a scopo di propaganda commerciale, per promuovere sul mercato qualcosa che, al momento, non si specifica.  È difficile che a essere proposto in vendita sia un lotto di ragazze – in Italia la schiavitù (sessuale e no) non è ignota e viene anche pubblicizzata, ma in forme diverse – e non è detto che si tratti di una nuova marca di biancheria intima (nel qual caso, rivolgendosi a un pubblico femminile, il messaggio giocherebbe, più che sulla concupiscenza, sulla identificazione con un oggetto di concupiscenza), ma qualcosa certamente sarà.  Ci troviamo davanti, in tutta evidenza, a uno dei tanti casi di campagna pubblicitaria in due tempi in cui, dopo che l’interesse dei consumatori è stato opportunamente suscitato da una comunicazione per qualche verso ambigua o enigmatica (in questo caso da un gioco di parole malizioso), una seconda ondata di manifesti provvede a sciogliere l’enigma, spiegando a tutti in che modo, concretamente, ci dovranno provare.
        Ora, se nel mio caso specifico l’invito può essere di scarso appello (intanto perché sono un uomo sposato e poi perché, anche se non lo fossi, sarei comunque troppo anziano e troppo imbranato per tentare degli approcci con le ragazze), può darsi benissimo che qualcun altro vi si dimostri sensibile.   E, del resto, perché no?  Di questi tempi, giocando sul sesso si vende qualsiasi cosa: automobili, acque minerali, telefonini, purganti…  Come si è visto recentemente in Gran Bretagna, si riesce a vendere anche un Primo Ministro, con relativa maggioranza governativa.   La pubblicità si è saldamente impadronita dell’argomento e se i suoi strateghi non si provano neanche a sfruttarne un altro avranno i loro motivi.
        Il bello (o il brutto) è che tutto questo avviene in un quadro sociale in cui nessuno può dire, a prima vista, che il sesso, utilizzazioni commerciali a parte, sia stabilmente inserito nel quadro dei valori positivi.  Un paese in cui, tanto per fare un esempio, l’intera struttura ecclesiastica, quasi tutte le forze di governo e metà di quelle di opposizione si schierano contro il referendum sulla procreazione assistita, in difesa  di una legge che si sforza di riallineare le modalità correnti di gestione del proprio corpo con la vecchia normativa della chiesa in materia, non può dirsi, da questo punto di vista, particolarmente sereno.   Diviso com’è tra la moralità sessuale delle campagne pubblicitarie e quella del cardinale Ruini, rivela, al contrario, un atteggiamento spiccatamente schizofrenico.  E anche a prescindere da questo aspetto (che non è privo, comunque, di una sua rilevanza), non è che l’alluvione di raffigurazioni e allusioni da cui siamo sommersi sia, in sé, un sintomo di tolleranza, il marker di una società in cui ciascuno possa disporre liberamente di sé sulla propria esclusiva responsabilità.  Il sesso a uso commerciale non è esattamente la stessa cosa di quello, come dire, privato.
        Perché voi, sinceramente, ci provereste davvero con quella ragazza lì?  Io non lo credo, perché, per quanto apprezzabile sia la sua immagine, nessuno ci prova con un manifesto pubblicitario.  Né potrebbe, d’altronde, provarci lei, nonostante la sua apparente disinvoltura, perché è stata concepita e costruita al solo scopo di vendere i prodotti che deve vendere, quali che siano, e solo a questo fine è orientata ed esibita la sua femminilità.  È il simbolo, lei come le sue innumerevoli colleghe (e i suoi meno numerosi colleghi), di un mondo in cui tra il sesso e il quattrino prevale sempre il quattrino e spero che converrete con me che è davvero un peccato.

08.05.’05