Perché

La caccia | Trasmessa il: 12/20/2009


    Sono sicuro che fosse sincero, il povero Berlusconi, quando chiedeva ai visitatori perché mai qualcuno avesse sentito il bisogno di fargli quella orribile cosa, o, più in generale, perché la gente lo odiasse tanto, proprio lui che, notoriamente, non odia nessuno, a tutti vuol bene e vuole il bene di tutti. In bocca a chiunque altro queste domande sembrerebbero tanto ingenue da giustificare quanto meno un sospetto di commedia, nel senso che qualsiasi politico consumato sa che il rischio di essere preso a pietrate in faccia, o peggio, è in un certo qual modo connaturato alla professione e non è un caso se tutti, lui compreso, affidano la propria incolumità in pubblico alle cure di professionisti appositamente addestrati e se non sempre la loro protezione risulta efficace è perché anche la miglior guardia del corpo, ogni tanto, può distrarsi o lasciarsi ingannare, come deve essere successo domenica scorsa, checché sostenga il ministro Maroni, a quelle in servizio in piazza del Duomo. E nessun politico si può permettere la convinzione di fare il bene di tutti, perché è fatale che in quel continuo bilanciamento di interessi contrapposti in cui la politica di solito si riduce qualcuno ne tragga vantaggio e qualcun altro ci smeni, tanto è vero che a ogni scontro politico si usa contare chi vince e chi perde. Ma Berlusconi è Berlusconi e quelle parole, sulla sua bocca martoriata, suonano del tutto sincere, proprio perché l'uomo un politico consumato proprio non è. Oggi tendiamo a dimenticarcene, ma anche lui (come il suo arcirivale Di Pietro, del resto) è “sceso in campo” cavalcando la tigre dell'antipolitica e la sua cultura, le sue esperienze e il suo curriculum sono le mille miglia lontani da quelli degli altri leader nazionali, tanto a destra quanto a sinistra. Inebriato dal successo, è convinto lui per primo del proprio carisma e si può permettere di ragionare in termini di valori assoluti, impiegando termini come “odio”, che non fanno parte del vocabolario politico vero e proprio, ma hanno un valore, insieme, morale e sentimentale, indicando, nel caso, lo stato di chi, spontaneamente e senza apprezzabili provocazioni, come spinto dalla propria natura, rifiuta il proprio consenso a chi tanto lo meriterebbe. Il Machiavelli, che cercava di ridurre la politica a una dimensione razionale, probabilmente, avrebbe avuto qualcosa da obiettare, ma sulla conoscenza che il capo del governo può avere della lezione dell'autore del Principe è lecito nutrire qualche dubbio e non c'è – comunque – nulla di machiavellico nella sua concezione del proprio potere. È più probabile che, se mai gli capita di riflettere su queste cose, si senta affine a certe figure di “re taumaturghi” come li definisce la scuola di Marc Bloch.
    Molto di machiavellico – e nel senso deteriore del termine – c'è invece nell'uso che del triste episodio hanno fatto, nella settimana testé trascorsa, i suoi collaboratori diretti. Adusi come sono alle astuzie e alle sottigliezze del gioco politico tradizionale (compresi i giri di valzer) i Bondi, i Cicchitto, i La Russa e gli altri hanno parlato di odio a ragion veduta. Hanno colto, com'è tradizione del loro ceto, l'occasione di un attentato – perché di questo stringi e stringi, si è trattato – per proporre seduta stante ogni possibile limitazione di quella libertà e di quei diritti che, dal loro punto di vista, agli attentati sono così strettamente connessi. La pratica è nota, ampiamente rodata e variamente sperimentata: parte dalla ricerca conclamata dei mandanti, che – si argomenta – non possono non esserci, si estrinseca nell'attribuzione della responsabilità a un gruppo quanto più ampio possibile – meglio se a tutta l'opposizione – e si conclude, o dovrebbe, con un nuovo assetto legislativo e costituzionale. Il percorso è talmente noto, che talvolta (anche se non in questo caso, direi) si sono compiuti degli attentati apposta per innescarlo.
    A chiunque, specie in questi giorni di dicembre, potrebbe venire in mente qualche esempio opportuno. Io, tanto per riportare indietro di qualche anno la memoria storica, sono andato a cercare sui libri cosa successe nel nostro paese quando, il 31 ottobre 1926, a Bologna, Mussolini buonanima, in visita in città, fu fatto segno, senza subire danni, da un colpo di pistola, il cui proiettile gli sfiorò il petto. A sparare era stato un ragazzo di quindici anni, Anteo Zamboni, sulle cui motivazioni non fu possibile fare luce, anche perché venne linciato sul posto (sul suo corpo si contarono quattordici pugnalate, una ferita d'arma da fuoco e varie lesioni al collo), ma proprio il fatto che fosse tanto giovane autorizzò la speculazione, fatta propria da un editoriale del “Popolo d'Italia”, di cui lo stesso Mussolini deteneva la proprietà, secondo cui il responsabile aveva dei complici che dovevano “subire la stessa sorte”. Per intanto, i prefetti cominciarono a sospendere i giornali che non avevano deplorato il fattaccio con sufficiente energia: a Roma “Il Mondo” e “La Voce Repubblicana”, a Milano l'”Avanti!”, l'”Unità” e “Battaglie sindacali”, a Torino “La Stampa” e l'”Ordine nuovo”, a Genova “Il Lavoro”, a Venezia “Il Gazzettino”, a Palermo “Il giornale di Sicilia” e “L'Ora” e altri a Verona, Brescia, Bolzano. A Roma, il segretario del Partito, Augusto Turati, chiese che venisse ristabilita la pena di morte, “non solo per colui che ha compiuto l'ultimo gesto, ma anche per coloro che l'hanno spinto”. Il successivo 5 novembre, il Consiglio dei Ministri non deluse le attese e in una sola seduta deliberò l'annullamento di tutti i passaporti per l'estero, la revoca della gerenza (e quindi la soppressione) di tutti i giornali antifascisti, lo scioglimento di tutti i partiti, associazioni e organizzazioni sindacali applicanti azione contraria al regime, l'istituzione del confino di polizia per coloro che avessero “commesso o manifestato il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti sociali, economici e nazionali” e altre misure. Il ministro della Giustizia, Alfredo Rocco, illustrò infine il disegno di legge “per la difesa dello Stato”, che istituiva la pena di morte e il Tribunale speciale.
    Altri tempi, naturalmente. Ma la logica repressiva, ahimè, è sempre la stessa e, se non viene opportunamente ostacolata, produce, più o meno, gli stessi effetti. Oggi alle responsabilità dei giornali si aggiungono volentieri quelle della televisione e di Internet, ma ciò non toglie che le colpe dei giornali ostili vengano denunciate a gran voce in Parlamento. Allora di complici o di mandanti non se ne trovarono, ma la cosa non escluse che venissero approvate le leggi per individuarli e punirli se mai ci fossero stati. Mussolini non era particolarmente vittimista – come, tutto sommato, non lo è Berlusconi – ma se si volle vittimizzare l'uno e si vuole vittimizzare l'altro un motivo c'era (e c'è) di certo. In certe situazioni, in effetti, basta conoscere un po' di storia per rispondere a qualsiasi “perché?”.

    20.12.'09


    Nota

    Per l'attentato di Anteo Zamboni e la repressione successiva si veda Luigi Salvatorelli, Giovanni Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, 1964, ediz. “Oscar Mondadori”, Milano 1969, vol. I, pp. 383 ss.