Pene opzionali

La caccia | Trasmessa il: 11/12/2006


    Spiace dirlo, perché – alla fin fine – c’è in ballo la pelle di un uomo, ma pochi dibattiti sono sembrati così futili come quello sull’opportunità di eseguire o meno la condanna a morte di Saddam Hussein. O forse, più che futili, inutili, visto che i termini del problema sono posti fin dall’inizio con inesorabile chiarezza e dipendono in toto dall’opinione che ciascuno può avere sull’ammissibilità di quel tipo di pena. Una volta d’accordo sulla pena di morte, non importa in base a quali motivazioni, sarebbe difficile sostenere che Saddam non se la sia meritata, né si vedrebbe, tutto sommato, alcun motivo per non eseguirla. Se no, no. I tentativi di eludere la questione, affermando, per esempio, che quella condanna è giusta e doverosa, ma sarebbe meglio non darle seguito per motivi di opportunità (o umanità, o altro) non portano da nessuna parte: possono avere, anzi, delle conseguenze vagamente surreali, come quella straordinaria dichiarazione di vari ministri europei (tra i quali, manco a dirlo, il nostro D’Alema) secondo i quali l’impiccagione del tiranno potrebbe spingere l’Iraq nella guerra civile, come se gli scontri che da tempo insanguinano quel paese fossero qualcosa di diverso e il fatto stesso di processare e condannare il leader di una delle parti non sia un tipico fatto di guerra civile . Ma si tratta, comunque, di una complicazione inutile, nel senso che certi principi o sono assoluti o non sono e su certe cose non si discute. Non si deve impiccare Saddam Hussein come non si deve impiccare nessuno e basta.
    Su questo, spero, siamo tutti d’accordo. Ma non tutti, forse, ci rendiamo conto di una cosa. Il no alla pena di morte non significa soltanto un no alle condanne a morte e (ovviamente) alla loro esecuzione. La pena capitale non è un optional che si possa prendere o lasciare a piacere. La sua presenza, di fatto, pervade e condiziona l’intero sistema giuridico, nel senso che inficia e rende, al limite, inammissibili le legislature che la prevedono e i processi che in base a esse vengono celebrati. Considerare uno stato di diritto a tutti gli effetti un paese in cui la si applica significa, come minimo, sottovalutare il tasso di violenza e di brutalità che comporta per l’intero corpo civile e per la sicurezza dei cittadini. Il caso degli Stati Uniti d’America mi sembra, da questo punto di vista, esemplare e poco importa se laggiù la maggioranza dell’opinione pubblica è incrollabilmente affezionata al capestro. È il classico caso del serpente che si morde la coda.
    Naturalmente tutto questo con Saddam Hussein c’entra solo fino a un certo punto. La sua condanna sarebbe discutile anche se si fosse risolta con una multa o con sei mesi con la condizionale. È stata pronunciata da un tribunale speciale, insediato ad hoc da un potenza occupante, che ne ha dettato le regole e le procedure, per cui solo con uno specialissimo sforzo di ipocrisia lo si può considerare espressione del popolo irakeno e delle sue leggi. Uno stato irakeno, del resto, quando fu creato quel tribunale non esisteva. Ma si sa che il governo americano non riconosce la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia e certe incombenze preferisce sbrigarsele in proprio. Oltretutto, casi come quello di Saddam sono troppo imbarazzanti per poter essere affrontati in un vero processo pubblico, in cui l’imputato avrebbe la fin troppo facile opportunità di chiamare a correi coloro stessi che pretendono di giudicarlo, visto che i suoi rapporti con gli Stati Uniti non sono sempre stati di contrapposizione e i gas sui villaggi curdi li ha fatti lanciare lui, ma qualcun altro glieli aveva forniti. Personaggi simili, in un modo o nell’altro, vanno fatti sparire. Questo non significa di necessità che lo impiccheranno, perché persino Bush può essere sensibile a un argomento di opportunità, specie dopo aver perso le elezioni, ma significa che se lo risparmieranno lo faranno in base a qualche patto scellerato, a una forma più o meno perversa di do ut des, a una promessa di silenzio di cui noi non avremo mai notizia.
    Possiamo capire le ragioni di tutto questo, ma non si vede perché, per parlarne, si debba tirare in ballo la Giustizia.

12.11.’06