Passioni romane

La caccia | Trasmessa il: 05/04/2008


    È opinione corrente, ancorché contestata, che il magro risultato della candidatura Rutelli al secondo turno delle comunali romane sia stato determinato da una sorta di pittoresca “vendetta dell'Arcobaleno”, nel senso che molti elettori appartenenti all'ala sinistra della coalizione che sosteneva il bel Francesco non lo avrebbero votato per ritorsione all'incetta di “voto utile” che il Partito democratico aveva fatto a loro spese alle politiche. Ne farebbe fede il fatto che nello stesso bacino elettorale di Roma città quei voti mancanti non sono stati tali per il candidato alle provinciali, Zingaretti, che infatti è stato regolarmente eletto.
    Personalmente, non saprei cosa dirvi. Non sono esperto di flussi elettorali, ammesso che di questa fumosa materia si possa essere esperti davvero, e non conosco l'elettorato romano. Pure, l'ipotesi non mi sembra, come ad altri, del tutto assurda: tale e tanta è l'incazzatura anti PD che ho respirato tra i miei amici e conoscenti dell'Arcobaleno qui a Milano, dove la nebbia, le piogge e la mancanza di candidati presentabili smorzano notoriamente l'emotività municipale, che non oso pensare a quali furibonde passioni possano essersi scatenate sotto il caldo sole di Roma. E poi, anche se in politica non amo granché gli arcobaleni, non mi sarebbe discaro sapere che Rutelli, l'avvio delle cui fortune risale al 1989, quando uscì dal Partito radicale per dar vita ai “Verdi Arcobaleno”, da un altro Arcobaleno è stato affossato, e possibilmente in via definitiva. Che volete: mi sembrerebbe, se non altro, una forma di poetica simmetria.
    Gli arcobalenisti ortodossi, quelli che rivendicano la loro fedeltà alla coalizione, argomentano, come Mariuccia Ciotta sul “Manifesto” di mercoledì, che i voti mancanti possano essere scomparsi nel buco nero dell'astensione, ma la spiegazione non regge un granché, perché non tiene conto della loro ricomparsa a favore di Zingaretti. D'altro canto, attribuire il deficit, come pure è stato fatto, a eventuali elettori del PD desiderosi di mazzolare la fazione margheritesca del loro partito, di cui Rutelli era leader, mi sembrerebbe una supposizione davvero un po' audace. In quel partito gli autolesionisti non mancano, a cominciare dal segretario, ma tutto, notoriamente, ha un limite.
    Tutto questo, comunque, ha ben poca importanza. L'evento in sé e le polemiche che ne sono seguite hanno un significato che va abbastanza oltre il problema delle vendette, delle ritorsioni e delle faide interne di partito. Comportano, in effetti, una nuova configurazione delle identità politiche in tutta l'area, ovvero, se preferite, la spaccatura definitiva della sinistra, la fine di quella prospettiva di una qualche collaborazione tra riformisti e radicali in cui, fino a non molto tempo fa, erano affidate le speranze residue di non lasciar governare questo paese per sempre alla destra. Il tragico Veltroni, che aveva deciso a sangue freddo di rompere la coalizione su scala nazionale, ha provato a lasciarla in vita a livello locale, ma queste operazioni sono davvero un po' troppo spericolate per riuscire sempre e comunque. Come risultato, così, Berlusconi e i suoi si vedono garantita un'indisturbata primazia per chissà quante legislature, e per di più potranno agevolmente mettere le mani su quel fitto sistema di amministrazioni locali e regionali che ci aveva fatto, in altri anni difficili, da rete di protezione. L'Italia, naturalmente, non ha mai conosciuto qualcosa di simile alla “solidarietà repubblicana”, il tacito patto che in Francia, al di là delle divisioni e delle polemiche, impedisce da più di un secolo alle forze progressiste – socialisti, comunisti e, quando c'erano, radicalsocialisti e repubblicani di sinistra – di votare gli uni contro gli altri, alle elezioni e nelle assemblee, ma un vago senso di identità comune finora aveva resistito, nonostante la tradizione del pas d'ennemis à gauche del vecchio PCI e le (giustificabili) reazioni che poteva suscitare nei suoi destinatari. Oggi sembrano tutti soddisfattissimi di questo sospirato divorzio, che lascia liberi gli uni di cercare l'agognata collaborazione con i moderati e gli altri di gestire l'opposizione con la necessaria radicalità nelle piazze e nei movimenti, ma io continuo a non entusiasmarmene più di tanto. Qualche tempo fa, se ricordate, mi ero azzardato a prevedere che avremmo rimpianto tutti il buon Prodi, che, per reggiano testa quadra che fosse, Berlusconi era riuscito a stenderlo per ben due volte. Be', vi assicuro che, dopo aver assistito allo storico passaggio da Bertinotti a Fini alla presidenza della Camera, io lo rimpiango già adesso che non è ancora formalmente uscito di carica.
04.05.'08