Passaggio in India

La caccia | Trasmessa il: 02/04/2007




L’India, grande paese in rapida ascesa sull’orizzonte mondiale, deve esercitare un fascino irresistibile sui politici italiani: nello spazio di due settimane gli sono toccate, in rapida successione, le visite di Formigoni prima e Rutelli poi.  E mentre del primo ci sono giunte solo un paio di fotografie sullo sfondo del Taj Mahal e qualche generica dichiarazione sui proficui rapporti che il sistema economico di quel paese potrà stabilire con quello lombardo (non senza qualche lecita ricaduta, suppongo, sulla Compagnia delle Opere), il secondo ha messo, come si dice, i piedi nel piatto.  Ha partecipato, lunedì 29 u. s., alla conferenza internazionale sul centenario della prima campagna nonviolenta di Gandhi, ha incontrato l’omonima Sonia e ha spiegato a tutti che lui con il profeta dell’indipendenza dell’India ha un rapporto tutto speciale.  Trenta anni fa, quando era solo un giovanotto di belle speranze e la maggior parte dei suoi coetanei era tristemente proclive a cedere ai miti della violenza (perché in Italia, si sa, “c’è stata una generazione che ha fatto politica sulla canna del fucile”), Rutelli era un pacifista di tutto rispetto.  Non poche copie di un foglio volante da lui personalmente redatto sul Satyagraha, il metodo nonviolento gandhiano, le conserva ancora in cantina, le ha ritrovate per caso proprio in questi giorni, le ha mostrate ai giornalisti prima di imbarcarsi per New Delhi e le ha commentate in loco, trovando che i concetti ivi espressi “non saranno pietre miliari della filosofia, ma sono interessanti, no?”  A quei tempi il bravo giovane faceva il dirigente del partito radicale, come si può evincere dal “soffietto” stampato su quel foglio proprio sopra la fotografia del Mahatma,  ma di quel peccato di gioventù certo non si vergogna.  “I radicali non erano solo battaglie civili e divorzio, erano Gandhi, nonviolenza, lotta alla fame nel mondo.  Erano progressisti.”  Sul che si potrebbe discutere, naturalmente, ma è vero che, allora, a credere al pacifismo (anzi all’antimilitarismo, come diceva lui) di Pannella  qualcuno c’era e chiedetelo pure a me e all’Accame, che ci eravamo cascati dieci anni prima dell’attuale leader della Margherita.

       Questo è il punto, però.  Mentre noi continuiamo ad arrabattarci come possiamo, il ragazzo, nel frattempo, è cresciuto e ha fatto carriera.  È diventato il vice di un governo che non si può dire propriamente gandhiano, visto che in pochi mesi di attività ha aumentato le spese militari, ha permesso agli Stati Uniti di installare nella pianura padana la più importante base militare di Europa e si è mostrato disposto ad autoimmolarsi pur di non rinunciare alla presenza dei nostri ragazzi in armi in svariate parti del mondo.  Nulla di nuovo, eh, sono cose che largamente si sanno e che tutti  ùsapevamo già prima di votarli, ma, come minimo, fanno pensare che alle reminescenze giovanili del vicepresidente manchi almeno un passaggio.  Che so, nel tentativo di saldare in qualche modo lo ieri all’oggi, avrebbe potuto dire “Eh sì, da giovane ci credevo, ma adesso, naturalmente, ho cambiato idea.”  Oppure: “Sapete com’è, a vent’anni si è tutti utopisti, ma poi bisogna fare i conti con la dura realtà.”  O anche che, essendo cambiati i tempi, un impegno come quello di allora, pur mantenendo intatto ogni valore morale, non si può più proporre nel concreto gioco politico.  Insomma, avrebbe potuto ricorrere a uno qualsiasi degli artifici retorici che usa chi deve spiegare di essere passato, col tempo, da una posizione all’altra.   Non c’è niente di male, in fondo, nel cambiare opinione e casacca: è una cosa che in Italia si fa normalmente, non è detto che sia sempre sbagliato e solo degli zucconi come coloro che da qui vi parlano possono vantarsi di essere abbarbicati da quarant’anni allo stesso scoglio ideologico.

       Lui però di questi problemi non ne ha e dato che si sente “dalla parte giusta di chi il pacifismo lo ha considerato un valore prima degli altri” (lo assicura il “Corriere” del 29 gennaio scorso), passa direttamente dall’elogio di Gandhi alla polemica con chi dice no al rifinanziamento della missione in Afghanistan.  Polemica nella quale non è il caso di seguirlo, perché le tesi governative in merito sono fin troppo note e il loro senso comunque è quello che lì ci siamo, lì dobbiamo restare e chi non è d’accordo si gratti pure.   Che non è, forse, una grandissima argomentazione, anche se condita con tutto l’armamentario dell’approccio multilaterale e della necessità di mantenere gli impegni presi, ma è l’unica di cui gente come Rutelli dispone, per cui tanto vale che la usi.  E se il vicepresidente del consiglio non si sente turbato da alcuna contraddizione, non dico con il pacifismo della sua giovinezza, ma con le dichiarazioni gandhiane che ha reso pochi minuti prima, vuol dire soltanto che il senso della contraddizione, come il coraggio, se uno non ce l’ha non se lo può dare.   D’altronde non si tratta di un problema esclusivamente suo: è caratteristica di tutto il ceto politico di cui Rutelli è espressione una certa prammatica disponibilità a servirsi di tutto quanto fa comodo ai propri fini senza neanche rendersi conto che, a volte, per prendere qualcosa bisogna lasciare qualcosa d’altro, per cui si può essere al tempo stesso laici e succubi del papa, liberisti e cultori dell’intervento pubblico in economia, solleciti degli interessi dei ceti più bassi e proni alle esigenze dei potenti.  O, come nel caso, si può andare a un convegno gandhiano per difendere un intervento armato.

       Naturalmente gli ospiti indiani del nostro eroe, dall’omonima Sonia in giù, non si saranno scandalizzati.  Anche loro di Gandhi si ricordano quel tanto che basta per vietare la vendita della birra nel giorno anniversario della sua morte e poco più.  Dall’indipendenza in poi l’India ha già combattuto almeno tre guerre, dispone di un esercito attrezzatissimo, completo di armamento nucleare, e se le ossa del Mahatma non si rivoltano nella tomba come le pale di un ventilatore è solo perché, per prudenza, lo hanno cremato.  Deve essere stato, quel convegno per il centenario del Satyagraha, una bella adunata di ipocriti.


04.02.’07