L’India, grande paese in rapida ascesa sull’orizzonte mondiale, deve
esercitare un fascino irresistibile sui politici italiani: nello spazio
di due settimane gli sono toccate, in rapida successione, le visite di
Formigoni prima e Rutelli poi. E mentre del primo ci sono giunte
solo un paio di fotografie sullo sfondo del Taj Mahal e qualche generica
dichiarazione sui proficui rapporti che il sistema economico di quel paese
potrà stabilire con quello lombardo (non senza qualche lecita ricaduta,
suppongo, sulla Compagnia delle Opere), il secondo ha messo, come si dice,
i piedi nel piatto. Ha partecipato, lunedì 29 u. s., alla conferenza
internazionale sul centenario della prima campagna nonviolenta di Gandhi,
ha incontrato l’omonima Sonia e ha spiegato a tutti che lui con il profeta
dell’indipendenza dell’India ha un rapporto tutto speciale. Trenta
anni fa, quando era solo un giovanotto di belle speranze e la maggior parte
dei suoi coetanei era tristemente proclive a cedere ai miti della violenza
(perché in Italia, si sa, “c’è stata una generazione che ha fatto politica
sulla canna del fucile”), Rutelli era un pacifista di tutto rispetto.
Non poche copie di un foglio volante da lui personalmente redatto
sul Satyagraha, il metodo nonviolento gandhiano, le conserva ancora in
cantina, le ha ritrovate per caso proprio in questi giorni, le ha mostrate
ai giornalisti prima di imbarcarsi per New Delhi e le ha commentate in
loco, trovando che i concetti ivi espressi “non saranno pietre miliari
della filosofia, ma sono interessanti, no?” A quei tempi il bravo
giovane faceva il dirigente del partito radicale, come si può evincere
dal “soffietto” stampato su quel foglio proprio sopra la fotografia del
Mahatma, ma di quel peccato di gioventù certo non si vergogna. “I
radicali non erano solo battaglie civili e divorzio, erano Gandhi, nonviolenza,
lotta alla fame nel mondo. Erano progressisti.” Sul che si
potrebbe discutere, naturalmente, ma è vero che, allora, a credere al pacifismo
(anzi all’antimilitarismo, come diceva lui) di Pannella qualcuno
c’era e chiedetelo pure a me e all’Accame, che ci eravamo cascati dieci
anni prima dell’attuale leader della Margherita.
Questo è il punto, però. Mentre noi continuiamo
ad arrabattarci come possiamo, il ragazzo, nel frattempo, è cresciuto e
ha fatto carriera. È diventato il vice di un governo che non si può
dire propriamente gandhiano, visto che in pochi mesi di attività ha aumentato
le spese militari, ha permesso agli Stati Uniti di installare nella pianura
padana la più importante base militare di Europa e si è mostrato disposto
ad autoimmolarsi pur di non rinunciare alla presenza dei nostri ragazzi
in armi in svariate parti del mondo. Nulla di nuovo, eh, sono cose
che largamente si sanno e che tutti ùsapevamo già prima di votarli,
ma, come minimo, fanno pensare che alle reminescenze giovanili del vicepresidente
manchi almeno un passaggio. Che so, nel tentativo di saldare in qualche
modo lo ieri all’oggi, avrebbe potuto dire “Eh sì, da giovane ci credevo,
ma adesso, naturalmente, ho cambiato idea.” Oppure: “Sapete com’è,
a vent’anni si è tutti utopisti, ma poi bisogna fare i conti con la dura
realtà.” O anche che, essendo cambiati i tempi, un impegno come
quello di allora, pur mantenendo intatto ogni valore morale, non si può
più proporre nel concreto gioco politico. Insomma, avrebbe potuto
ricorrere a uno qualsiasi degli artifici retorici che usa chi deve spiegare
di essere passato, col tempo, da una posizione all’altra. Non c’è
niente di male, in fondo, nel cambiare opinione e casacca: è una cosa che
in Italia si fa normalmente, non è detto che sia sempre sbagliato e solo
degli zucconi come coloro che da qui vi parlano possono vantarsi di essere
abbarbicati da quarant’anni allo stesso scoglio ideologico.
Lui però di questi problemi non ne ha e dato
che si sente “dalla parte giusta di chi il pacifismo lo ha considerato
un valore prima degli altri” (lo assicura il “Corriere” del 29 gennaio
scorso), passa direttamente dall’elogio di Gandhi alla polemica con chi
dice no al rifinanziamento della missione in Afghanistan. Polemica
nella quale non è il caso di seguirlo, perché le tesi governative in merito
sono fin troppo note e il loro senso comunque è quello che lì ci siamo,
lì dobbiamo restare e chi non è d’accordo si gratti pure. Che non
è, forse, una grandissima argomentazione, anche se condita con tutto l’armamentario
dell’approccio multilaterale e della necessità di mantenere gli impegni
presi, ma è l’unica di cui gente come Rutelli dispone, per cui tanto vale
che la usi. E se il vicepresidente del consiglio non si sente turbato
da alcuna contraddizione, non dico con il pacifismo della sua giovinezza,
ma con le dichiarazioni gandhiane che ha reso pochi minuti prima, vuol
dire soltanto che il senso della contraddizione, come il coraggio, se uno
non ce l’ha non se lo può dare. D’altronde non si tratta di un
problema esclusivamente suo: è caratteristica di tutto il ceto politico
di cui Rutelli è espressione una certa prammatica disponibilità a servirsi
di tutto quanto fa comodo ai propri fini senza neanche rendersi conto che,
a volte, per prendere qualcosa bisogna lasciare qualcosa d’altro, per
cui si può essere al tempo stesso laici e succubi del papa, liberisti e
cultori dell’intervento pubblico in economia, solleciti degli interessi
dei ceti più bassi e proni alle esigenze dei potenti. O, come nel
caso, si può andare a un convegno gandhiano per difendere un intervento
armato.
Naturalmente gli ospiti indiani del nostro
eroe, dall’omonima Sonia in giù, non si saranno scandalizzati. Anche
loro di Gandhi si ricordano quel tanto che basta per vietare la vendita
della birra nel giorno anniversario della sua morte e poco più. Dall’indipendenza
in poi l’India ha già combattuto almeno tre guerre, dispone di un esercito
attrezzatissimo, completo di armamento nucleare, e se le ossa del Mahatma
non si rivoltano nella tomba come le pale di un ventilatore è solo perché,
per prudenza, lo hanno cremato. Deve essere stato, quel convegno
per il centenario del Satyagraha, una bella adunata di ipocriti.
04.02.’07