Parole e musica

La caccia | Trasmessa il: 11/25/2007


    Mercoledì scorso, verso le otto e mezza, mi capita di accendere il televisore: non ho in mente un programma particolare, voglio semplicemente impostare la registrazione della fiction poliziesca prevista per mezz'ora dopo. Comunque accendo e sullo schermo c'è una quantità di gente che canta. Cantano, per la precisione, l'inno di Mameli, nel che naturalmente non c'è niente di strano,visto che l'ambientazione è quella di un campo di calcio, dove si sta per dare inizio alla partita della Nazionale contro la rappresentanza, a quanto capisco, delle isole Far Oer, e so che prima di un incontro del genere l'esecuzione degli inni di entrambi i paesi in gara è assolutamente di rigore. Tuttavia... tuttavia quello che mi accorgo di provare è una fortissima sensazione di irrealtà. In quello scenario, su quel campo verde, nel primo piano di quegli undici bei giovanotti che cantano con aria ispirata, non proprio con la mano sul cuore, come si usava una volta, ma con un'espressione certo molto intensa, in quel pubblico entusiasta che si unisce al canto, nelle riprese delle ragazze sorridenti sugli spalti e delle scolaresche festose ai bordi del campo, che cantano pure loro a pieni polmoni, c'è qualcosa che proprio non va. Mi ci vuole un po' per capire di che cosa si tratta, ma poi ci arrivo. A non andare, non c'è santi, sono le parole che tutti stanno intonando.
    Mi spiego. Io non ho niente, Dio ne scampi, contro l'inno nazionale e l'uso di eseguirlo prima degli avvenimenti sportivi. È una consuetudine riconosciuta e male certamente non può fare. Ma una cosa è seguire quell'evento musicale da lontano, quando l'espressione di chi canta è indistinta e le parole si perdono nella festosa caciara dell'occasione, misericordiosamente coperte – di solito – dallo squillo degli ottoni e del rimbombo delle percussioni della banda e un'altra è associare, in televisione, i primi piani dei cantatori con le parole perfettamente intelligibili che, grazie alla perizia dei tecnici del suono, ti giungono alle orecchie. Sono parole, quelle, che l'amor di patria consiglierebbe di non ascoltare.
    Vediamo. Nel voler comunicare ai fratelli d'Italia che l'Italia, finalmente, s'è desta, non c'è, in linea di principio, niente di male. Che il nostro paese si stesse risvegliando (o dovesse risvegliarsi) da un lungo sonno era concetto largamente diffuso già a fine '700, elaborato con particolare compiacimento dall'Alfieri e dal Foscolo, e in seguito abbastanza diffuso perché persino Goffredo Mameli, che scrisse, Dio lo perdoni, quei versi nel novembre del 1847, lo conoscesse. Ma perché, una volta ridestatasi, la Nazione dovesse cingersi la testa con l'elmo di Scipio, senza neanche appurare se si trattasse di Publio Cornelio Scipione l'Africano, che sconfisse Annibale a Zama quando il generale cartaginese si era già ritirato dall'Italia e non rappresentava più un pericolo per Roma, o di suo nipote per adozione, Publio Cornelio Scipione Emiliano, che attaccò proditoriamente Cartagine in un periodo in cui le due città, in teoria, erano in pace tra loro, e dopo un impari assedio la distrusse dalle fondamenta facendo poi spargere il sale sulle rovine, o di suo fratello Lucio Cornelio Scipione l'Asiatico, che fu mandato a combattere Antioco re di Siria, ma preferì estorcergli una bella somma di danaro e nel 184 a. C. fu condannato per corruzione e peculato, be', questo, lo ammetterete, non è facile da capire. Non parliamo dei versi successivi, quelli della Vittoria (intesa come dea) che deve porgere la chioma perché schiava di Roma Iddio la creò, versi che per essere compresi richiedono una nota a piè di pagina di almeno sei righe, che spieghi come quello di lasciarsi afferrare per i capelli fosse nei tempi antichi un gesto di sottomissione tipico di chi veniva ridotto in schiavitù, per cui il senso è che Roma, cioè l'Italia, ha una specie di monopolio divino sulla vittoria (intesa come evento militare e, credo, sportivo), il che, per un paese che, nella sua storia unitaria, quando qualcun altro non è intervenuto a toglierlo dai guai, le ha prese spesso di santa ragione, anche dagli abissini, non sembra esattamente il concetto più indicato. E perché mai, Santiddio, perché mai prima di un evento festoso e amichevole come una partita di calcio, soprattutto quando l'avversario è rappresentato da una squadra di volonterosi scalzacani destinata a farsi battere per 3 a 1, bisogna cantare tutti insieme di essere pronti alla morte, parapàm, parapàm, parapampampampampàm, credo che nemmeno l'Accame, grande esperto di comunicazione in campo sportivo, saprebbe spiegare. Tuttavia era proprio questa la dichiarazione che giocatori, tecnici, tifosi e cittadini esprimevano a gran voce e io mi sono affrettato a spegnere il televisore prima che le cose si spingessero troppo oltre.
    Mi direte che non è il caso di metterla giù così dura, che gli inni nazionali sono gli inni nazionali e che alle loro parole non bada nessuno. È vero, naturalmente, ma a tutto c'è un limite. Niente da eccepire, per esempio, a che gli inglesi implorino Dio di salvare la loro Regina, anche perché la povera donna, con tutti i problemi familiari che si ritrova, ha un gran bisogno di protezione divina, o a che i tedeschi considerino il proprio paese degno di primeggiare tra gli altri, almeno finché non decidono di passare dalla teoria alla pratica. Sono disposto a sopportare persino la truculenza della Marsigliese, perché quell'invito ai cittadini ad armarsi e formare i loro battaglioni e marciare, marciare, perché un sangue impuro abbeveri i loro solchi va inteso soprattutto come il ricordo di una certa, drammatica, evenienza storica. Ma l'idea di essere pronti alla morte in nome dell'elmo di Scipio e della Vittoria schiava di Roma, be', questo non lo riesco a mandare proprio giù. È un esempio clamoroso della peggiore retorica nazionale, quella che mescola assurde petizioni di principio ai cascami più triti della cultura classica e non si preoccupa né della verità storica né dei valori (chiamiamoli così) che esprime. Non so a voi, ma a me sembra che sia venuta l'ora di darci un taglio.
    Il che non significa, naturalmente, che agli inni nazionali prima della partita si debba rinunciare. Ma lasciamo perdere le parole, per favore: affidiamoli interamente alla banda, come si fa in molte occasioni ufficiali, comprese le visite dei Capi di Stato stranieri, e ascoltiamoli con la dovuta serietà, senza preoccuparci di ostentare una espressione ispirata. Magari, ascoltando, potremmo giurare tra noi che parole simili non ne scriveremo mai.