Pari opportunità

La caccia | Trasmessa il: 05/09/2004



Di generali che non hanno mai combattuto una sola battaglia, tranne quelle per l’avanzamento e la carriera, strateghi che non hanno mai visto da vicino un teatro di operazioni e preferiscono, in linea di massima, che a cadere in prima linea siano gli altri, ce ne sono sempre stati in tutti gli eserciti, anche – credo – in quello italiano.  Sono, da un certo punto di vista, tra i loro bellicosi colleghi i più fortunati.  Ma visto che non si può avere tutto, sono anche quelli che hanno meno probabilità di passare alla storia e di comparire sulle enciclopedie e sui dizionari biografici.
        A meno, naturalmente, che non possano distinguersi per qualcosa d’altro.  Per essere, per esempio, donne.  Perché ci sono anche donne generali (non credo si dica “generalesse”) e una, ho scoperto da poco, l’abbiamo avuta anche in Italia.  Si chiamava Piera Gatteschi Fondelli e ha rivestito il grado in un periodo oscuro della nostra storia, dal 1944 al 1945.  L’ho appreso da un repertorio di libera distribuzione in edicola e nei supermarket, il dizionario biografico Italiane, edito, per iniziativa del ministro Stefania Prestigiacomo dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del consiglio dei ministri, di cui mi è capitato in mano, con qualche ritardo, il secondo volume.
        Strana pubblicazione, questo Italiane.  Dovrebbe rispondere alla necessità di “raccontare la vita delle donne, celebri e meno celebri, di diverso orientamento politico e culturale, che hanno contribuito in modo determinante alla storia del nostro paese”, nel presupposto, indicato dalla Prestigiacomo in prefazione che “le donne, nella storia italiana … siano state una sorta di lato oscuro della luna: presenti ed agenti, ma invisibili”, in quanto “destinate, anche dalla oleografia culturale ufficiale, ad un ruolo domestico” (presupposto su cui sarebbe difficile non concordare), ma poi elenca soprattutto figure (scrittrici, sportive, intellettuali, attrici…) che alla dimensione domestica sono riuscite a sfuggire.  In fondo, personaggi come, cito a caso, Marta Abba, Clara Calamai, Elena Canino, Ada Gobetti, Teresa Noce, Wanda Osiris fanno parte da sempre della prosopografia nazionale.  Ma forse la cosa era inevitabile e il risultato, nonostante qualche giudizio fazioso e qualche vistoso calo di tono qua e là è meno disdicevole di quanto si potrebbe immaginare.
        Essendo il secondo volume, comunque, dedicato al periodo tra le due guerre, la scelta comprende anche un certo numero di donne del fascismo.  Niente di cui scandalizzarsi, naturalmente: è ovvio che in un repertorio del genere figure come Edda Ciano, Claretta Petacci, Luisa Ferida e Rachele Mussolini ci siano.  Sono trattate, a mio avviso, con una sorta di caramellosa benevolenza che non rende onore agli autori delle schede relative, ma si sa da quale parrocchia proviene la Prestigiacomo e ciascuno, naturalmente, è libero di scegliersi le proprie eroine.
        Quello della Piera Gatteschi Fondelli, tuttavia, è un altro discorso.  È vero che, tra le altre signore in nero citate è l’unica che si sia conquistata la posizione per meriti o demeriti propri e non sia assurta alla fama grazie al legame con un qualche padre, marito o amante, ma è anche vero che, per essere l’unica donna generale della nostra storia, le sue imprese appaiono assai scarse.  È stata una gerarca di un certo peso, ma sempre in ruoli rigorosamente subordinati.  Si è iscritta al fascio di Roma a 19 anni e nel ’22 ha partecipato (non si dice partendo da dove) alla marcia sulla capitale, ma lo ha fatto in quanto membro di una “squadra di onore di scorta al gagliardetto” che non deve avere avuto, in quella trista impresa, gran parte.  Ha fatto carriera nel PNF, ma sempre in posizioni, come dire, “donnesche”, occupandosi dell’Opera nazionale maternità e infanzia, della Croce rossa, delle colonie estive… solo alla fine del ’43, formatasi la RSI, si è trasferita a Brescia e ha manifestato  a Pavolini ”il desiderio delle donne fasciste di avere un ruolo più incisivo nella difesa del paese”, un’idea da cui sarebbe nato il Saf (Servizio ausiliario femminile), nelle cui file avrebbero militato, sembra, ben 6.000 povere ragazze “di tutte le condizioni sociali”.  Ma anche qui, in definitiva, poco di guerresco: i compiti di queste volontarie. non “amazzoni”, per carità, ma “sorelle dei combattenti”, si limitavano all’assistenza negli ospedali, al lavoro negli uffici e all’allestimento di posti mobili di ristoro per la truppa.  Non risulta che la neo generale abbia partecipato ad alcuna operazione bellica e le sue direttive riguardavano soprattutto il divieto di fumare e indossare i pantaloni e la difesa a oltranza della “moralità” delle sue donne soldato, che voleva, senza badare alla implicita contraddizione, “molto femminili”.  Una burocrate di regime, quindi, e una presenza trascurabile in quegli anni terribili, come trascurabile è stata la sua attività nel dopoguerra, un periodo per il quale lo storico registra soltanto un’attività di “organizzazione di viaggi turistici per i giovani del Movimento sociale italiano” e il tentativo, fallito, di gestire un ristorante.
        E allora, viene fatto di chiedersi, perché?  Perché dare spazio in un’opera sulle donne che hanno dato un contributo alla storia, addirittura alla modernizzazione, del paese a una figura esteriormente trucida (bisogna vederla la foto in cui passa in rassegna alcuni reparti, pensate, nel marzo del ’45), ma in sostanza decisamente scialba?  Perché ricordare in quel contesto una donna che si è sempre attenuta con rigore al principio per cui il ruolo sociale del proprio genere non poteva che essere quello domestico, o a quello domestico doveva essere  strettamente correlato, per cui di maternità e infanzia, di assistenza ai malati, di conforto sororale e non di altro era permesso, a lei e alle sue simili, di occuparsi?
        Be’, per un motivo solo, probabilmente, o, al massimo, due.  Perché era fascista e perché ha aderito alla RSI.  Il regime, né prima del 25 luglio né dopo l’8 settembre, non incoraggiava certo la presenza pubblica delle donne: era già tanto, visto il priapismo di fondo della sua ideologia, se riconosceva l’esistenza di quelle due o tre figlie, mogli e amanti di cui sopra.  Alle altre bastava e avanzava, si sa, il compito di dare figli alla patria.   Per chi dunque ha dovuto inserire nel repertorio delle italiane celebri qualche fascista eminente, meglio se repubblichina (perché questo era evidentemente il mandato, nel clima imperante di revisionismo a spese pubbliche), c’era poco da scegliere e a quel poco ci si è dovuto attenere.  La contraddizione, in fondo, non salta subito agli occhi e d’altronde il modello sociale che prevede il riconoscimento di onori e qualifiche, compresi il grado di generale e la carica di ministro, a chi si impegna a starsene zitta e buona (o, quanto a questo, zitto e buono) non è certo desueto neanche oggi.
        Temo che in questo specifico campo non ci sia da sperare nella sofferta autocritica dell’onorevole Fini.

09.05.’04