Di generali che non hanno mai combattuto
una sola battaglia, tranne quelle per l’avanzamento e la carriera, strateghi
che non hanno mai visto da vicino un teatro di operazioni e preferiscono,
in linea di massima, che a cadere in prima linea siano gli altri, ce ne
sono sempre stati in tutti gli eserciti, anche – credo – in quello italiano.
Sono, da un certo punto di vista, tra i loro bellicosi colleghi i
più fortunati. Ma visto che non si può avere tutto, sono anche quelli
che hanno meno probabilità di passare alla storia e di comparire sulle
enciclopedie e sui dizionari biografici.
A
meno, naturalmente, che non possano distinguersi per qualcosa d’altro.
Per essere, per esempio, donne. Perché ci sono anche donne
generali (non credo si dica “generalesse”) e una, ho scoperto da poco,
l’abbiamo avuta anche in Italia. Si chiamava Piera Gatteschi Fondelli
e ha rivestito il grado in un periodo oscuro della nostra storia, dal 1944
al 1945. L’ho appreso da un repertorio di libera distribuzione in
edicola e nei supermarket, il dizionario biografico Italiane, edito, per
iniziativa del ministro Stefania Prestigiacomo dal Dipartimento per le
pari opportunità della Presidenza del consiglio dei ministri, di cui mi
è capitato in mano, con qualche ritardo, il secondo volume.
Strana
pubblicazione, questo Italiane. Dovrebbe rispondere alla necessità
di “raccontare la vita delle donne, celebri e meno celebri, di diverso
orientamento politico e culturale, che hanno contribuito in modo determinante
alla storia del nostro paese”, nel presupposto, indicato dalla Prestigiacomo
in prefazione che “le donne, nella storia italiana … siano state una
sorta di lato oscuro della luna: presenti ed agenti, ma invisibili”, in
quanto “destinate, anche dalla oleografia culturale ufficiale, ad un ruolo
domestico” (presupposto su cui sarebbe difficile non concordare), ma poi
elenca soprattutto figure (scrittrici, sportive, intellettuali, attrici…)
che alla dimensione domestica sono riuscite a sfuggire. In fondo,
personaggi come, cito a caso, Marta Abba, Clara Calamai, Elena Canino,
Ada Gobetti, Teresa Noce, Wanda Osiris fanno parte da sempre della prosopografia
nazionale. Ma forse la cosa era inevitabile e il risultato, nonostante
qualche giudizio fazioso e qualche vistoso calo di tono qua e là è meno
disdicevole di quanto si potrebbe immaginare.
Essendo
il secondo volume, comunque, dedicato al periodo tra le due guerre, la
scelta comprende anche un certo numero di donne del fascismo. Niente
di cui scandalizzarsi, naturalmente: è ovvio che in un repertorio del genere
figure come Edda Ciano, Claretta Petacci, Luisa Ferida e Rachele Mussolini
ci siano. Sono trattate, a mio avviso, con una sorta di caramellosa
benevolenza che non rende onore agli autori delle schede relative, ma si
sa da quale parrocchia proviene la Prestigiacomo e ciascuno, naturalmente,
è libero di scegliersi le proprie eroine.
Quello
della Piera Gatteschi Fondelli, tuttavia, è un altro discorso. È
vero che, tra le altre signore in nero citate è l’unica che si sia conquistata
la posizione per meriti o demeriti propri e non sia assurta alla fama grazie
al legame con un qualche padre, marito o amante, ma è anche vero che, per
essere l’unica donna generale della nostra storia, le sue imprese appaiono
assai scarse. È stata una gerarca di un certo peso, ma sempre in
ruoli rigorosamente subordinati. Si è iscritta al fascio di Roma
a 19 anni e nel ’22 ha partecipato (non si dice partendo da dove) alla
marcia sulla capitale, ma lo ha fatto in quanto membro di una “squadra
di onore di scorta al gagliardetto” che non deve avere avuto, in quella
trista impresa, gran parte. Ha fatto carriera nel PNF, ma sempre
in posizioni, come dire, “donnesche”, occupandosi dell’Opera nazionale
maternità e infanzia, della Croce rossa, delle colonie estive… solo alla
fine del ’43, formatasi la RSI, si è trasferita a Brescia e ha manifestato
a Pavolini ”il desiderio delle donne fasciste di avere un ruolo
più incisivo nella difesa del paese”, un’idea da cui sarebbe nato il
Saf (Servizio ausiliario femminile), nelle cui file avrebbero militato,
sembra, ben 6.000 povere ragazze “di tutte le condizioni sociali”. Ma
anche qui, in definitiva, poco di guerresco: i compiti di queste volontarie.
non “amazzoni”, per carità, ma “sorelle dei combattenti”, si limitavano
all’assistenza negli ospedali, al lavoro negli uffici e all’allestimento
di posti mobili di ristoro per la truppa. Non risulta che la neo
generale abbia partecipato ad alcuna operazione bellica e le sue direttive
riguardavano soprattutto il divieto di fumare e indossare i pantaloni e
la difesa a oltranza della “moralità” delle sue donne soldato, che voleva,
senza badare alla implicita contraddizione, “molto femminili”. Una
burocrate di regime, quindi, e una presenza trascurabile in quegli anni
terribili, come trascurabile è stata la sua attività nel dopoguerra, un
periodo per il quale lo storico registra soltanto un’attività di “organizzazione
di viaggi turistici per i giovani del Movimento sociale italiano” e il
tentativo, fallito, di gestire un ristorante.
E
allora, viene fatto di chiedersi, perché? Perché dare spazio in un’opera
sulle donne che hanno dato un contributo alla storia, addirittura alla
modernizzazione, del paese a una figura esteriormente trucida (bisogna
vederla la foto in cui passa in rassegna alcuni reparti, pensate, nel marzo
del ’45), ma in sostanza decisamente scialba? Perché ricordare in
quel contesto una donna che si è sempre attenuta con rigore al principio
per cui il ruolo sociale del proprio genere non poteva che essere quello
domestico, o a quello domestico doveva essere strettamente correlato,
per cui di maternità e infanzia, di assistenza ai malati, di conforto sororale
e non di altro era permesso, a lei e alle sue simili, di occuparsi?
Be’,
per un motivo solo, probabilmente, o, al massimo, due. Perché era
fascista e perché ha aderito alla RSI. Il regime, né prima del 25
luglio né dopo l’8 settembre, non incoraggiava certo la presenza pubblica
delle donne: era già tanto, visto il priapismo di fondo della sua ideologia,
se riconosceva l’esistenza di quelle due o tre figlie, mogli e amanti
di cui sopra. Alle altre bastava e avanzava, si sa, il compito di
dare figli alla patria. Per chi dunque ha dovuto inserire nel repertorio
delle italiane celebri qualche fascista eminente, meglio se repubblichina
(perché questo era evidentemente il mandato, nel clima imperante di revisionismo
a spese pubbliche), c’era poco da scegliere e a quel poco ci si è dovuto
attenere. La contraddizione, in fondo, non salta subito agli occhi
e d’altronde il modello sociale che prevede il riconoscimento di onori
e qualifiche, compresi il grado di generale e la carica di ministro, a
chi si impegna a starsene zitta e buona (o, quanto a questo, zitto e buono)
non è certo desueto neanche oggi.
Temo
che in questo specifico campo non ci sia da sperare nella sofferta autocritica
dell’onorevole Fini.
09.05.’04