Palle di piombo, di ferro, di pietra

La caccia | Trasmessa il: 03/30/2008


    Alessandro Robecchi cita, sul “Manifesto” di domenica scorsa, gli accorati appelli cui da qualche tempo si dedicano gli editorialisti dei principali giornali, per invitarci a non confondere l'attuale situazione economica, con le sue recessioni incombenti, i continui disastri finanziari, la volatilità degli investimenti, l'inaffidabilità del mercato, l'inflazione, il carovita, i bond spazzatura, la moderazione salariale e tutto il resto, con un “fallimento del modello economico liberale” – come scrive, tra i tanti, Massimo Goggi sul “Corriere” – e osserva come questa singolare argomentazione (se vogliamo chiamarla così, trattandosi, in realtà, di una semplice petizione di principio) ricordi maledettamente da vicino quelle con cui, una volta, si arrabattava la sinistra, del pari ansiosa di distinguere i modelli ideali cui si ispirava dalle varie forme di “socialismo reale” che, allora, affliggevano il pianeta. In entrambi i casi il problema era ed è quello di tenere ben distinto il piano (deludente) delle realizzazioni concrete da quello, tanto più gratificante, della definizione teorica, per non far ricadere sulla seconda l'evidente pochezza delle prime.

    L'osservazione è acuta, come sempre quelle di Robecchi, ma forse è un poco limitativa. Quella di distinguere i due piani, considerando la realtà – intesa come l'insieme delle situazioni con cui si ha quotidianamente a che fare – una specie di sottoprodotto difettoso della teoria è pratica antica e non si limita alle dissertazioni politiche e giornalistiche. Conosciamo tutti il racconto biblico, per il quale l'intera umanità, stringi stringi, è una forma degenerata di quella a suo tempo installata dal Creatore nel Giardino dell'Eden, ed è a tutti più o meno familiare il nome di Platone, che su una distinzione del genere fondò il suo sistema (e probabilmente segnò il corso intero della filosofia occidentale) ma quel costume è più radicato di quanto si pensi anche in campo scientifico. Già il Torricelli, uno dei fondatori conclamati della fisica moderna, scrive, nel XVII secolo, che a lui, che i principi della dottrina del moto siano veri o falsi importa pochissimo, perché “se non son veri fingasi che sian veri conforme abbiamo supposto e poi prendansi tutte le altre speculazioni derivate da essi principi non come miste, ma pure geometriche,” per cui basterà “fingere” o “supporre” che “qualche corpo si muova all'ingiù e all'insù con la nota proporzione” per trarne le debite conseguenze teoriche e “se poi le palle di piombo, di ferro, di pietra non osservano quella supposta proporzione, suo danno: noi diremo che non parliamo di esse.” E per passare a un campo del quale ho qualche personale esperienza, l'intera scienza linguistica, con rarissime eccezioni, è basata sull'assunto per cui i molteplici idiomi che si parlano in questo mondo possono o devono venir ricondotti a una o più lingue ideali da cui derivano, o come più modernamente si dice, “si generano”. Non tutti i linguisti affermano esplicitamente che la lingua originaria gode di una perfezione che a quelle effettivamente in uso è negata, come fa August Schleicher, il massimo esponente della glottologia ottocentesca, ma i più lo danno per sottinteso. E non sarebbe troppo difficile, naturalmente, attingere esempi del genere anche in altri ambiti scientifici, a dimostrazione di come il limite tra scienza e filosofia sia molto meno preciso di quanto comunemente si crede.
    Ora, nessuno ha mai avuto esperienza della lingua ideale, anche se lo Schleicher si diede a suo tempo la pena di “ricostruirla” e giunse persino a scriverci una favoletta. Dobbiamo tutti arrangiarci con “le palle di piombo, di ferro, di pietra”, come a dire con i dati dell'esperienza, con i linguaggi che la cultura umana produce incessantemente, per quanto imperfetti siano, con i sistemi economico-sociali di cui in un modo o nell'altro ci siamo dotati e se qualcuno vorrà consolarsi speculando sulla superiore razionalità dei modelli a cui li potremmo, volendo, ricondurre, la sua sarà, appunto, solo una consolazione e nient'altro. In fondo, dopo il tracollo dell'Unione Sovietica e del suo sistema di potere, i popoli di quella parte del mondo hanno fatto i conti con i vari regimi che concretamente li governavano e con le loro nomenclature, non certo con la teoria marxiana nelle sue varie interpretazioni. Noi, analogamente, i conti dovremo farli, potendo, con questo capitalismo qui, con questa sua classe dirigente avida e incapace, con questa banda di ladri e di truffatori da quattro soldi, che sta spolpando a proprio vantaggio le risorse del paese, smantellando il sistema produttivo e incamerando tutto quanto riesce a incamerare, indifferente al bene comune e agli interessi generali. E sarebbe già una bella impresa.
    Quanto al “modello economico liberale” in sé, francamente ci interessa ben poco. Saremmo, anzi, ben lieti di non occuparcene affatto, se non fosse per l'ostinazione con cui le forze che, pure, si richiamano al cambiamento, quelle che dovrebbero rappresentare la continuità della sinistra, affermano di volerci credere e di volerlo far funzionare. Che più di una forma di idealismo è una specie di follia, di ostinazione maniacale, un modo come un altro di chiudere gli occhi di fronte alla realtà, spostando il dibattito nell'empireo dei modelli teorici e lasciando che l'intero corpo sociale vada in rovina e noi con lui. Perché a coloro che vogliono mandare in rovina, naturalmente, gli dei per prima cosa tolgono il senno.

    30.03.'08

    Nota

    Il brano del Torricelli è citato da Silvio Ceccato come epigrafe del suo Il linguaggio con la tabella di Ceccatieff (1950), ora in Un tecnico tra i filosofi, II, Marsilio, Padova, 1966, pp. 267 – 422. Per la linguistica, cfr il mio “La passeggiata” in Silvio Ceccato e Carlo Oliva, Il linguista inverosimile, Mursia, Milano, 1988.