Ossequi linguistici

La caccia | Trasmessa il: 12/03/2000



Un trafiletto qualsiasi, pubblicato il 25 novembre scorso su un quotidiano nazionale.  “A Peccioli, cittadina della provincia pisana, è nato il primo museo italiano di icone russe.  Le opere risalgono al XIX e primi del XX secolo, e sono state donate dal giornalista Francesco Bigazzi, toscano, profondo conoscitore della Russia dove lavora da anni.  Alle 60 opere se ne sono state aggiunte temporaneamente altre 20 provenienti dal celebre Russian Museum di San Pietroburgo che ha curato il restauro.  In occasione della mostra sono stati aperti colloqui internazionali e riflessioni sul rapporto fra icona e secolarizzazione.”
        Il lettore legge e passa oltre senza indugiare.  La notizia è manifestamente priva del minimo interesse, salvo per chi sia molto appassionato di icone russe, o conosca di persona il giornalista Francesco Bigazzi, o viva, per sua ventura, a Peccioli, in provincia di Pisa.  Una certa attenzione potrebbe dedicarvi anche chi fosse abituato a cogliere i segni della decadenza del giornalismo italiano nella comparsa, su una testata di una certa levatura, di una nota così mal scritta e così manifestamente scorretta, oltre che dal punto di vista della punteggiatura e della sintassi, anche da quello dell’informazione.  L’anonimo estensore, per esempio, ha dimenticato di dirci di che cosa ha curato il restauro il celebre museo di San Pietroburgo, se delle sessanta opere originali, delle venti in esposizione temporanea o di tutte e ottanta e, a proposito di quei “colloqui internazionali e riflessioni”, si è guardato bene dal farci sapere chi li ha aperti e chi vi partecipa.  Ma queste, naturalmente, sono miserie su cui non vale la pena di soffermarsi.  Da quando un numero crescente di redattori viene dalle scuole di giornalismo, succede anche di peggio.
        Ma c’è un passaggio, in realtà, che dovrebbe interessarci tutti.  Perché diavolo, a pensarci bene, un articolo su un giornale italiano, un articolo  che parla di un museo russo, deve denominarlo in inglese?  I nomi stranieri, secondo il costume odierno, o li si traducono (scrivendo, per esempio, “il Museo di arte moderna di New York”) o li si lasciano nell’originale, sottolineando la scelta con un uso opportuno del carattere corsivo (“Il Museum of Modern Art di New York”).   Ma di un ente che avrà, presumibilmente, una sua denominazione originale in russo, non c’è motivo alcuno di parlare in inglese a degli italiani.  L’inglese, certo, serve ormai da lingua franca tra interlocutori che ignorino gli uni il linguaggio degli altri, ma questo non dovrebbe essere il caso di chi ha scritto quella notizia e di chi la legge.
        E allora, presumibilmente, si tratta di un classico esempio di ossequio malriposto.  Alla base del tutto, se ricordo ancora qualcosa di come funzionano i giornali, deve esserci una qualche comunicazione in inglese: che so, una corrispondenza tra il museo di Leningrado (pardon, di San Pietroburgo) e quello di Peccioli, o un comunicato stampa internazionale.  Chi se n’è servito per confezionare la notizia (a livello, immagino, di agenzia) non ha, semplicemente, avuto il coraggio di tradurre il nome proprio (o quello che ha supposto essere il nome proprio, perché in quella città di “musei russi”, a occhio e croce, devono essercene parecchi).  Quell’espressione, così com’era, in quella lingua, gli sarà sembrata più autorevole.   Non ha pensato che l’inglese, nel nuovo contesto da lui stesso approntato, non c’entrava più niente.  Anzi, forse ha pensato che il suo uso avrebbe ravvivato una notizia piuttosto smorta.  E chi ha trasportato il pezzo dall’agenzia alle pagine del suo giornale, naturalmente, si è ben guardato – come usa – dal fare il minimo cambiamento.
        Ora, spero che non mi accusiate di buttarla sempre in politica, ma secondo me c’è un aspetto da prendere in considerazione.  L’inglese non è soltanto una comoda lingua franca internazionale.  È anche la lingua egemone a livello planetario, in quanto espressione della potenza politicamente dominante.  Per questo noi sudditi, a meno che siamo proprio entusiasti dall’essere tali, dovremmo starci, come minimo, un po’ attenti, usandola quando è necessario e astenendocene quando no.  È anche, scusate, una questione di principio.
Guardate che non faccio una questione di purismo.  Lo sapete anche voi, dopo tutti questi anni, che, personalmente, do spazio a ogni sorta di termini non italiani (e non sempre mi prendo la briga di metterli al corsivo), ma cerco di farlo solo se ce ne vedo un motivo.  Forse mi sbaglio, ma mi sembra che il caso che vi ho segnalato, proprio perché è un caso minore, non intenzionale, dovuto, presumibilmente,  a motivi di pura indolenza e sciatteria, sia particolarmente inquietante.  Vuol dire che a certe forme di ossequio siamo talmente avvezzi che non ci badiamo neanche più.  E visto che il quotidiano in questione non è né “Libero” né “Il Giornale”, ma, ahimè, “Il manifesto”, capirete anche voi che qualche motivo di preoccupazione sia giusto averlo (C.O.)

03.12.’00