Un trafiletto qualsiasi, pubblicato
il 25 novembre scorso su un quotidiano nazionale. “A Peccioli, cittadina
della provincia pisana, è nato il primo museo italiano di icone russe.
Le opere risalgono al XIX e primi del XX secolo, e sono state donate
dal giornalista Francesco Bigazzi, toscano, profondo conoscitore della
Russia dove lavora da anni. Alle 60 opere se ne sono state aggiunte
temporaneamente altre 20 provenienti dal celebre Russian Museum di San
Pietroburgo che ha curato il restauro. In occasione della mostra
sono stati aperti colloqui internazionali e riflessioni sul rapporto fra
icona e secolarizzazione.”
Il
lettore legge e passa oltre senza indugiare. La notizia è manifestamente
priva del minimo interesse, salvo per chi sia molto appassionato di icone
russe, o conosca di persona il giornalista Francesco Bigazzi, o viva, per
sua ventura, a Peccioli, in provincia di Pisa. Una certa attenzione
potrebbe dedicarvi anche chi fosse abituato a cogliere i segni della decadenza
del giornalismo italiano nella comparsa, su una testata di una certa levatura,
di una nota così mal scritta e così manifestamente scorretta, oltre che
dal punto di vista della punteggiatura e della sintassi, anche da quello
dell’informazione. L’anonimo estensore, per esempio, ha dimenticato
di dirci di che cosa ha curato il restauro il celebre museo di San Pietroburgo,
se delle sessanta opere originali, delle venti in esposizione temporanea
o di tutte e ottanta e, a proposito di quei “colloqui internazionali e
riflessioni”, si è guardato bene dal farci sapere chi li ha aperti e chi
vi partecipa. Ma queste, naturalmente, sono miserie su cui non vale
la pena di soffermarsi. Da quando un numero crescente di redattori
viene dalle scuole di giornalismo, succede anche di peggio.
Ma
c’è un passaggio, in realtà, che dovrebbe interessarci tutti. Perché
diavolo, a pensarci bene, un articolo su un giornale italiano, un articolo
che parla di un museo russo, deve denominarlo in inglese? I
nomi stranieri, secondo il costume odierno, o li si traducono (scrivendo,
per esempio, “il Museo di arte moderna di New York”) o li si lasciano
nell’originale, sottolineando la scelta con un uso opportuno del carattere
corsivo (“Il Museum of Modern Art di New York”). Ma di un ente
che avrà, presumibilmente, una sua denominazione originale in russo, non
c’è motivo alcuno di parlare in inglese a degli italiani. L’inglese,
certo, serve ormai da lingua franca tra interlocutori che ignorino gli
uni il linguaggio degli altri, ma questo non dovrebbe essere il caso di
chi ha scritto quella notizia e di chi la legge.
E
allora, presumibilmente, si tratta di un classico esempio di ossequio malriposto.
Alla base del tutto, se ricordo ancora qualcosa di come funzionano
i giornali, deve esserci una qualche comunicazione in inglese: che so,
una corrispondenza tra il museo di Leningrado (pardon, di San Pietroburgo)
e quello di Peccioli, o un comunicato stampa internazionale. Chi
se n’è servito per confezionare la notizia (a livello, immagino, di agenzia)
non ha, semplicemente, avuto il coraggio di tradurre il nome proprio (o
quello che ha supposto essere il nome proprio, perché in quella città di
“musei russi”, a occhio e croce, devono essercene parecchi). Quell’espressione,
così com’era, in quella lingua, gli sarà sembrata più autorevole.
Non ha pensato che l’inglese, nel nuovo contesto da lui stesso approntato,
non c’entrava più niente. Anzi, forse ha pensato che il suo uso
avrebbe ravvivato una notizia piuttosto smorta. E chi ha trasportato
il pezzo dall’agenzia alle pagine del suo giornale, naturalmente, si è
ben guardato – come usa – dal fare il minimo cambiamento.
Ora,
spero che non mi accusiate di buttarla sempre in politica, ma secondo me
c’è un aspetto da prendere in considerazione. L’inglese non è soltanto
una comoda lingua franca internazionale. È anche la lingua egemone
a livello planetario, in quanto espressione della potenza politicamente
dominante. Per questo noi sudditi, a meno che siamo proprio entusiasti
dall’essere tali, dovremmo starci, come minimo, un po’ attenti, usandola
quando è necessario e astenendocene quando no. È anche, scusate,
una questione di principio.
Guardate che non faccio una questione
di purismo. Lo sapete anche voi, dopo tutti questi anni, che, personalmente,
do spazio a ogni sorta di termini non italiani (e non sempre mi prendo
la briga di metterli al corsivo), ma cerco di farlo solo se ce ne vedo
un motivo. Forse mi sbaglio, ma mi sembra che il caso che vi ho segnalato,
proprio perché è un caso minore, non intenzionale, dovuto, presumibilmente,
a motivi di pura indolenza e sciatteria, sia particolarmente inquietante.
Vuol dire che a certe forme di ossequio siamo talmente avvezzi che
non ci badiamo neanche più. E visto che il quotidiano in questione
non è né “Libero” né “Il Giornale”, ma, ahimè, “Il manifesto”, capirete
anche voi che qualche motivo di preoccupazione sia giusto averlo (C.O.)
03.12.’00