Orientamenti

La caccia | Trasmessa il: 12/13/1998



Strano paese, il nostro.  Siamo afflitti da una legge elettorale che, per concorde riconoscimento di critica  e pubblico, tutte le forze politiche comprese, fa alquanto schifo, al punto che il Presidente del Consiglio in carica ha giustificato quella che lui stesso riteneva un’anomalia politica del suo governo (il fatto, cioè, che si appoggiasse su una maggioranza diversa da quella scelta a suo tempo dall’elettorato) osservando che, con una legge del genere, non si poteva certo andare di nuovo a votare.  In tale situazione, a prima vista, parrebbe opportuno metter mano senza indugi a una legge nuova, perché un paese in cui non si può andare a votare non sembra esattamente il massimo della democrazia.  Sì, ci sono dei problemi, perché i partiti grandi puntano al modello maggioritario e quelli piccoli, che sono tanti, difendono a denti stretti la quota proporzionale, ma, insomma, la politica è fatta apposta per superare, con le mediazioni del caso, contraddizioni del genere.  Invece no.  Di rifare la legge elettorale si parla, ma nessuno prende iniziative in merito.  Bisogna aspettare, dicono, che la Corte Costituzionale si pronunci sull’ammissibilità del referendum proposto da un certo numero di cittadini con il fine di eliminare la quota proporzionale dell’attuale legge per l’elezione della Camera dei Deputati.
        Sempre a prima vista, sembrerebbe difficile che la suprema Corte passi per buona una proposta del genere.  La Costituzione italiana, all’art. 75, prevede il referendum al solo scopo di abrogare, in tutto o in parte, una legge e i fautori del referendum non hanno intenzione di abrogare, in tutto o in parte, la legge elettorale: ci mancherebbe altro.  Vogliono eliminare la quota proporzionale, facendo sì, mediante un abile gioco di tagli e rammendi, che la legge in vigore preveda che quel certo numero di deputati che prima venivano eletti con il metodo proporzionale lo siano in tutt’altro modo (quale non ho ben capito, ma presto o tardi ce lo spiegheranno).  Il che sarà magari una bella cosa, ma non di un’abrogazione, totale o parziale, si tratta, quanto di una modifica, magari in meglio, e un referendum modificativo, o migliorativo, dalla Costituzione non è previsto.  Per non dire che non bisogna essere dei geni per capire che una legge che fa schifo, una volta manipolata in modo che prescriva qualcosa di diverso da quel che prescriveva prima, farà più schifo ancora.
        Ahimè: fidarsi della Corte Costituzionale è sempre un azzardo.  Di referendum manipolativi ne ha già ammessi a iosa e di indipendenza dal potere politico ne ha sempre dimostrato pochina.  E il potere politico, si è visto, quel referendum lo vuole, se no avrebbe già cambiato la legge.  Una volta pronunciatasi la Corte, ci assicurano, prima o dopo che il popolo sovrano abbia votato sul referendum (ma sarà senz’altro dopo, perché volete forse che su un referendum dichiarato ammissibile non si vada a votare?), il Parlamento sanerà le eventuali incongruenze con una bella legge che tenga conto della volontà chiaramente espressa dal popolo.
        In altre parole, ci stanno preparando, pari pari, la stessa truffa seguita al referendum del ’18 aprile ’93, che aveva reso inutilizzabile, abolendone una parte, la legge elettorale del Senato e aveva permesso ai partiti di far passare, con la scusa di rispettare la volontà popolare, una legge nuova.  La stessa che adesso bisogna cambiare, perché si è visto che non funziona.  La truffa, naturalmente, sta nel fatto che ai cittadini si dice che il loro voto sarà risolutivo, che a loro solo spetterà decidere quale sistema elettorale scegliere, mentre ci si propone fin d’ora di considerare quel voto come puramente consultivo, riservandosi il diritto di concretizzarlo in provvedimenti concreti che ne interpretino il senso.  Del fatto che dell’istituto del referendum propositivo, che pure sarebbe assolutamente possibile, nei nostri ordinamenti non ci sia traccia, non sembra curarsi assolutamente nessuno.  Basta che i cittadini esprimano comunque un orientamento e a realizzarlo ci pensano loro.
        Almeno fino a un certo punto, naturalmente.  Perché quando l’orientamento dei cittadini riguarda qualcosa che gli va meno a genio, i nostri politici riscoprono subito la differenza tra voto propositivo e voto abrogativo.  Il referendum che, lo stesso 18 aprile ’93, provvide ad abolire il finanziamento pubblico dei partiti non ha mai goduto, a quanto pare, di alcun valore orientativo.  Se lo si cita a qualsiasi esponente della prima o della seconda repubblica, ci si sente immancabilmente rispondere che quello aveva semplicemente abrogato una legge, il che non solo autorizza, ma impone, di farne subito un’altra.  Come a dire che il fatto che il 90,3 % dei cittadini abbia dichiarato di non gradire un finanziamento di qualche decina di miliardi non impedisce di fare una legge che di miliardi ne elargisce centotrenta.  Come a dire che il cittadino ha il diritto di esprimere quegli orientamenti su cui la classe politica è d’accordo e gli altri no.
        Sì, lo so che quest’ultima affermazione suona becera e qualunquistica.  Ma, sinceramente, amici miei, quando si sentono certi discorsi, come si fa?

13.12.’98