Chissà perché i responsabili della banda dei carabinieri, per accompagnare
l’uscita delle bare dalla chiesa dopo il funerale delle vittime di Nassiriya,
martedì scorso, hanno optato per la musica della Canzone del Piave. Tutte
le altre scelte musicali della giornata, almeno per quanto ne hanno riferito
i giornali (perché io, vi confesso, la diretta televisiva non l’ho seguita,
nel senso che l’idea di trasmettere un funerale in diretta come fosse
uno spettacolo, o, come si dice oggi, un “evento”, mi sembra così strana
che mi astengo persino dal commentarla), tutte le altre scelte musicali
– dicevo – mi sono sembrate abbastanza ragionevoli. Giusto che
i commilitoni della Brigata Sassari scortassero i loro compagni con il
canto di Dimonios, il triste inno di battaglia di quella unità. Giusto
che all’arrivo dei feretri in chiesa l’organo intonasse il solenne De
profundis di Bach. Giusto, o almeno comprensibile, che, dopo la benedizione
dell’ordinario militare (perché abbiamo ancora, pensate, un ordinario
militare: un vescovo con i galloni di generale) l’orchestra “Laus” e
il coro della diocesi di Roma eseguissero dei brani di monsignor Marco
Frisina: non conosco quel musicista, ma apprendo dal “Corriere” che è
autore delle colonne sonore tv per Papa Giovanni e L’Apocalisse e che
in un’occasione così platealmente mediatica ci fosse posto per l’opera
di uno specialista del settore sembra affatto naturale. Ma il Piave,
dio mio, cosa c’entrava il Piave? Mi rendo conto che l’inno nazionale,
in quel momento, sarebbe suonato fuori luogo e che, probabilmente, il protocollo
lo prescrive per tutt’altre occasioni, ma non saranno certo mancate nel
repertorio di quell’illustre corpo bandistico dei titoli capaci di esprimere
il lutto e la solennità di un funerale di stato senza le implicazioni storiche
e ideologiche che quell’inno inevitabilmente comporta.
Perché la Canzone del Piave gode, o ha goduto, di
molta popolarità ed è forse, tra le marce guerresche che ci hanno afflitto
negli ultimi due secoli, una delle meno insopportabili, ma con la situazione
e i caduti che ivi si commemoravano ha veramente ben poco a che fare. L’autore
dei versi, quell’E.A. Mario dietro cui si nasconde il Giovanni Gaeta che,
in seguito, avrebbe dato il meglio di sé con le strazianti parole di Santa
Lucia lontana e il pathos un po’ compiaciuto di Balocchi e profumi (e
non doveva essere, quindi, un animo particolarmente marziale), celebra,
sorvolando, forse con qualche disinvoltura, sulla dinamica storica degli
eventi, soprattutto il tema della resistenza al nemico invasore. Non
ci piove, il tema è quello, dall’iniziale “l’esercito marciava per raggiungere
la frontiera e far contro il nemico una barriera” al drammatico “no disse
il Piave, no dissero i fanti, mai più il nemico faccia un passo avanti”
di una delle ultime strofe. Della tragedia della prima guerra mondiale
quei versi ricordano soprattutto la resistenza ostinata nelle trincee,
l’impegno dei tanti militi ignoti che andarono al macello nella convinzione
di risparmiare, se non altro, un’occupazione nemica al paese.
Non farò torto alla vostra intelligenza sottolineando
come tutto ciò non abbia nulla a che fare con quanto è successo a Nassiriya.
E, forse, non è qui che sta il punto. Il problema non consiste
soltanto nel tentativo, pur fastidioso, di cambiare le carte in tavola,
confondendo i ruoli dell’aggredito e dell’aggressore: è cosa, questa,
cui la retorica militare ci ha abituato e da cui siamo in grado, più o
meno tutti, di difenderci. Ma il fatto è che sui caduti del Piave,
sui seicentomila morti della Grande Guerra, si è impiantata, a suo tempo,
una delle speculazioni ideologiche più classiche della nostra storia. La
loro memoria, com’è noto, è stata sequestrata in massa dal fascismo, che
se ne è servito, sfruttando il tema polemico della “vittoria mutilata”
e il senso di identificazione che la loro perdita riproponeva, per acquisire
il consenso di cui aveva bisogno per la sua scalata al potere. In
fondo ci dev’essere un motivo per cui Mussolini, a conclusione della marcia
su Roma, sosteneva di aver portato alla capitale “l’Italia di Vittorio
Veneto” e se alla Canzone del Piave, nonostante l’impostazione – tutto
sommato – democratica dei suoi versi, in cui non a caso si parla molto
di fanti e poco o nulla di generali, capitò di essere adottata come inno
nazionale della repubblica di Salò.
Ecco, di operazioni del genere non abbiamo – oggi
– assolutamente bisogno. Quei caduti devono poter suscitare affetto e
pietà senza che questo significhi per nessuno un coinvolgimento nel progetto
in nome del quale sono stati mandati a morire. Quella “identità
nazionale” ritrovata di cui tanto si è parlato in questi giorni e su cui
si sono dilungati, non senza contraddizioni, i vari Ciampi e Ruini, non
ha proprio niente a che fare con le scelte politiche del governo (e, naturalmente,
dell’opposizione). Un’identità, d’altronde, qualsiasi identità
ha senso se si costruisce su una serie di valori condivisi e liberamente
scelti da chi vi ci si rispecchia: quando la proposta, come succede spesso
in politica, viene dall’alto, e i proponenti si identificano, in un modo
o nell’altro, con chi detiene il potere, ci sono tutte le ragioni del
mondo per diffidarne.
Anche per questo, forse, sarebbe stato meglio che
quei funerali fossero accompagnati da un altro inno.
23.11.’03