Odi e inni

La caccia | Trasmessa il: 11/23/2003





Chissà perché i responsabili della banda dei carabinieri, per accompagnare l’uscita delle bare dalla chiesa dopo il funerale delle vittime di Nassiriya, martedì scorso, hanno optato per la musica della Canzone del Piave.  Tutte le altre scelte musicali della giornata, almeno per quanto ne hanno riferito i giornali (perché io, vi confesso, la diretta televisiva non l’ho seguita, nel senso che l’idea di trasmettere un funerale in diretta come fosse uno spettacolo, o, come si dice oggi, un “evento”, mi sembra così strana che mi astengo persino dal commentarla), tutte le altre scelte musicali – dicevo – mi sono sembrate abbastanza ragionevoli.  Giusto che i commilitoni della Brigata Sassari scortassero i loro compagni con il canto di Dimonios, il triste inno di battaglia di quella unità.  Giusto che all’arrivo dei feretri in chiesa l’organo intonasse il solenne De profundis di Bach.  Giusto, o almeno comprensibile, che, dopo la benedizione dell’ordinario militare (perché abbiamo ancora, pensate, un ordinario militare: un vescovo con i galloni di generale) l’orchestra “Laus” e il coro della diocesi di Roma eseguissero dei brani di monsignor Marco Frisina: non conosco quel musicista, ma apprendo dal “Corriere” che è autore delle colonne sonore tv per Papa Giovanni e L’Apocalisse e che in un’occasione così platealmente mediatica ci fosse posto per l’opera di uno specialista del settore sembra affatto naturale.  Ma il Piave, dio mio, cosa c’entrava il Piave?  Mi rendo conto che l’inno nazionale, in quel momento, sarebbe suonato fuori luogo e che, probabilmente, il protocollo lo prescrive per tutt’altre occasioni, ma non saranno certo mancate nel repertorio di quell’illustre corpo bandistico dei titoli capaci di esprimere il lutto e la solennità di un funerale di stato senza le implicazioni storiche e ideologiche che quell’inno inevitabilmente comporta.
      Perché la Canzone del Piave gode, o ha goduto, di molta popolarità ed è forse, tra le marce guerresche che ci hanno afflitto negli ultimi due secoli, una delle meno insopportabili, ma con la situazione e i caduti che ivi si commemoravano ha veramente ben poco a che fare.  L’autore dei versi, quell’E.A. Mario dietro cui si nasconde il Giovanni Gaeta che, in seguito, avrebbe dato il meglio di sé con le strazianti parole di Santa Lucia lontana e il pathos un po’ compiaciuto di Balocchi e profumi (e non doveva essere, quindi, un animo particolarmente marziale), celebra, sorvolando, forse con qualche disinvoltura, sulla dinamica storica degli eventi, soprattutto il tema della resistenza al nemico invasore.  Non ci piove, il tema è quello, dall’iniziale “l’esercito marciava per raggiungere la frontiera e far contro il nemico una barriera” al drammatico “no disse il Piave, no dissero i fanti, mai più il nemico faccia un passo avanti” di una delle ultime strofe.  Della tragedia della prima guerra mondiale quei versi ricordano soprattutto la resistenza ostinata nelle trincee, l’impegno dei tanti militi ignoti che andarono al macello nella convinzione di risparmiare, se non altro, un’occupazione nemica al paese.
      Non farò torto alla vostra intelligenza sottolineando come tutto ciò non abbia nulla a che fare con quanto è successo a Nassiriya.  E, forse, non è qui che sta il punto.  Il problema non consiste soltanto nel tentativo, pur fastidioso, di cambiare le carte in tavola, confondendo i ruoli dell’aggredito e dell’aggressore: è cosa, questa, cui la retorica militare ci ha abituato e da cui siamo in grado, più o meno tutti, di difenderci.  Ma il fatto è che sui caduti del Piave, sui seicentomila morti della Grande Guerra, si è impiantata, a suo tempo, una delle speculazioni ideologiche più classiche della nostra storia.  La loro memoria, com’è noto, è stata sequestrata in massa dal fascismo, che se ne è servito, sfruttando il tema polemico della “vittoria mutilata” e il senso di identificazione che la loro perdita riproponeva, per acquisire il consenso di cui aveva bisogno per la sua scalata al potere.  In fondo ci dev’essere un motivo per cui Mussolini, a conclusione della marcia su Roma, sosteneva di aver portato alla capitale “l’Italia di Vittorio Veneto” e se alla Canzone del Piave, nonostante l’impostazione – tutto sommato – democratica dei suoi versi, in cui non a caso si parla molto di fanti e poco o nulla di generali, capitò di essere adottata come inno nazionale della repubblica di Salò.
      Ecco, di operazioni del genere non abbiamo – oggi – assolutamente bisogno. Quei caduti devono poter suscitare affetto e pietà senza che questo significhi per nessuno un coinvolgimento nel progetto in nome del quale sono stati mandati a morire.  Quella “identità nazionale” ritrovata di cui tanto si è parlato in questi giorni e su cui si sono dilungati, non senza contraddizioni, i vari Ciampi e Ruini, non ha proprio niente a che fare con le scelte politiche del governo (e, naturalmente, dell’opposizione).  Un’identità, d’altronde, qualsiasi identità ha senso se si costruisce su una serie di valori condivisi e liberamente scelti da chi vi ci si rispecchia: quando la proposta, come succede spesso in politica, viene dall’alto, e i proponenti si identificano, in un modo o nell’altro, con chi detiene il potere, ci sono tutte le ragioni del mondo per diffidarne.
      Anche per questo, forse, sarebbe stato meglio che quei funerali fossero accompagnati da un altro inno.

23.11.’03