Normalità

La caccia | Trasmessa il: 12/16/2001




Non sono riuscito a capire, vi confesso, il senso della sentenza con cui il Tribunale dei minori di Torino ha riconosciuto a Erika De Nardo e Mauro Favaro, detto Omar, lo status di “persone normali”, capaci – secondo l’accezione giuridica del termine – “di intendere e di volere” e condannabili, quindi, a un’adeguata  pena carceraria.  Non certo che i giudici e i loro periti abbiano inteso affermare che sia normale, nelle circostanze in cui quei due ragazzi si sono trovati, comportarsi come si sono comportati loro.  E neanche che ogni persona normalmente capace di intendere e di volere possa (o debba) scegliere quella particolare linea di azione.  La condanna sanziona, in tutta evidenza, un’anormalità, un comportamento che, proprio in quanto fuori dalla norma va  deprecato e punito.  Ma il principio per cui un’anormalità può essere punita solo se a compierla è stato un individuo normale è troppo a rischio di autocontraddizione per poterlo assumere con piena tranquillità.
Vi prego di credere che non mi sto abbandonando a un gusto fuori luogo per il paradosso.  Ma non si può negare che l’impianto metodologico delle varie scienze psichiche e le categorie di cui si servono i relativi specialisti per classificare i comportamenti e le reazioni degli esseri umani siano, nonostante tutti i tentativi di fondazione compiuti da due secoli a questa parte, drammaticamente deboli e di questa debolezza, quando si viene al dunque, si deve pagare lo scotto.  Lo dimostra, a livello giuridico, la stessa eterogeneità delle definizioni adottate dai vari sistemi penali e, d’altronde, lo stesso consulente tecnico dell’accusa al processo torinese ha dovuto ammettere, in una delle tante interviste raccolte sui quotidiani di ieri, che è difficile “utilizzare parametri psichiatrici in ambito giudiziario” e che “di questo reato non riusciremo mai ad avere una comprensione piena”.

       Forse l’ipotesi più convincente è la più semplice.  Erika e Omar, prescindendo dal problema della loro giovanissima età, sono soltanto due persone normalmente malvagie, come se ne trovano tante.  Appartengono a quell’ampio settore dell’umanità per cui i problemi si risolvono con la violenza, salvo dichiarare, se necessario, che la colpa è di qualcun altro.  Un settore, se ci pensiamo, così ampio da rappresentare la maggioranza del genere umano, visto che comprende non solo quanti si sentono autorizzati ad alzare la mano su un proprio simile, ma tutti coloro che credono e affermano che certi obiettivi non possono essere perseguiti altro che con la forza delle armi e che la pace può nascere soltanto dalla guerra.  Esercitata a livello privato o a livello pubblico, in nome del bene comune o dell’egoismo personale, la violenza è sempre violenza e non c’è barba di costruzione ideologica che la possa giustificare.

       Tuttavia, i due assassini di Novi Ligure restano pur sempre due ragazzi: due creature immature la cui responsabilità va misurata sui valori e le certezze che gli adulti hanno saputo trasmettere loro.  Sono, in senso lato, figli nostri, eredi del mondo che gli abbiamo preparato noi.  Credono nelle stesse cose e condividono le nostre stesse paure.  Non sarà un caso se i loro concittadini, nelle ore successive al delitto, hanno creduto con tanto entusiasmo alla giustificazione che gli era stata offerta, accettando senza esitare un’imputazione di responsabilità che andava incontro ai loro pregiudizi e alle loro volontà di esclusione.

       Non so, naturalmente, quale sarà il destino di quei due sciagurati.  So solo che oggi sono stati affidati a un’istituzione, il carcere, sulle cui capacità di recupero e riabilitazione ben pochi (e io meno di tutti) hanno fiducia.  Non voglio mettere in discussione quanto è stato detto da persone di tutto rispetto sulla necessità di sanzionare la loro colpa o su quella di “un percorso di autoespiazione” cui non può essere estranea una concreta dimensione afflittiva.  Sono cose di cui non mi intendo Spero soltanto che la loro condanna non esprima la volontà di rinchiuderli per dimenticarli, di scuotere dalla nostra coscienza il fastidio di quella loro tragica normalità.

C.Oliva, 16.12.’01