Non sono riuscito a capire, vi confesso, il senso della sentenza con cui
il Tribunale dei minori di Torino ha riconosciuto a Erika De Nardo e Mauro
Favaro, detto Omar, lo status di “persone normali”, capaci – secondo
l’accezione giuridica del termine – “di intendere e di volere” e condannabili,
quindi, a un’adeguata pena carceraria. Non certo che i giudici
e i loro periti abbiano inteso affermare che sia normale, nelle circostanze
in cui quei due ragazzi si sono trovati, comportarsi come si sono comportati
loro. E neanche che ogni persona normalmente capace di intendere
e di volere possa (o debba) scegliere quella particolare linea di azione.
La condanna sanziona, in tutta evidenza, un’anormalità, un comportamento
che, proprio in quanto fuori dalla norma va deprecato e punito. Ma
il principio per cui un’anormalità può essere punita solo se a compierla
è stato un individuo normale è troppo a rischio di autocontraddizione per
poterlo assumere con piena tranquillità.
Vi prego di credere che non mi sto abbandonando a un gusto fuori luogo
per il paradosso. Ma non si può negare che l’impianto metodologico
delle varie scienze psichiche e le categorie di cui si servono i relativi
specialisti per classificare i comportamenti e le reazioni degli esseri
umani siano, nonostante tutti i tentativi di fondazione compiuti da due
secoli a questa parte, drammaticamente deboli e di questa debolezza, quando
si viene al dunque, si deve pagare lo scotto. Lo dimostra, a livello
giuridico, la stessa eterogeneità delle definizioni adottate dai vari sistemi
penali e, d’altronde, lo stesso consulente tecnico dell’accusa al processo
torinese ha dovuto ammettere, in una delle tante interviste raccolte sui
quotidiani di ieri, che è difficile “utilizzare parametri psichiatrici
in ambito giudiziario” e che “di questo reato non riusciremo mai ad avere
una comprensione piena”.
Forse l’ipotesi più convincente è la più semplice.
Erika e Omar, prescindendo dal problema della loro giovanissima età,
sono soltanto due persone normalmente malvagie, come se ne trovano tante.
Appartengono a quell’ampio settore dell’umanità per cui i problemi
si risolvono con la violenza, salvo dichiarare, se necessario, che la colpa
è di qualcun altro. Un settore, se ci pensiamo, così ampio da rappresentare
la maggioranza del genere umano, visto che comprende non solo quanti si
sentono autorizzati ad alzare la mano su un proprio simile, ma tutti coloro
che credono e affermano che certi obiettivi non possono essere perseguiti
altro che con la forza delle armi e che la pace può nascere soltanto dalla
guerra. Esercitata a livello privato o a livello pubblico, in nome
del bene comune o dell’egoismo personale, la violenza è sempre violenza
e non c’è barba di costruzione ideologica che la possa giustificare.
Tuttavia, i due assassini di Novi Ligure restano
pur sempre due ragazzi: due creature immature la cui responsabilità va
misurata sui valori e le certezze che gli adulti hanno saputo trasmettere
loro. Sono, in senso lato, figli nostri, eredi del mondo che gli
abbiamo preparato noi. Credono nelle stesse cose e condividono le
nostre stesse paure. Non sarà un caso se i loro concittadini, nelle
ore successive al delitto, hanno creduto con tanto entusiasmo alla giustificazione
che gli era stata offerta, accettando senza esitare un’imputazione di
responsabilità che andava incontro ai loro pregiudizi e alle loro volontà
di esclusione.
Non so, naturalmente, quale sarà il destino
di quei due sciagurati. So solo che oggi sono stati affidati a un’istituzione,
il carcere, sulle cui capacità di recupero e riabilitazione ben pochi (e
io meno di tutti) hanno fiducia. Non voglio mettere in discussione
quanto è stato detto da persone di tutto rispetto sulla necessità di sanzionare
la loro colpa o su quella di “un percorso di autoespiazione” cui non
può essere estranea una concreta dimensione afflittiva. Sono cose
di cui non mi intendo Spero soltanto che la loro condanna non esprima la
volontà di rinchiuderli per dimenticarli, di scuotere dalla nostra coscienza
il fastidio di quella loro tragica normalità.
C.Oliva, 16.12.’01