Normalità

La caccia | Trasmessa il: 03/28/1999




Qualche giorno fa, martedì 23 marzo, la Corte di Appello di Milano ha confermato la condanna di Maria Grazia Cadeddu (“Patrizia”, come preferisce farsi chiamare), militante del “Laboratorio anarchico” di via De Amicis, accusata – come ricorderete – di essere la “postina di Radio Popolare”, come a dire la donna che, un paio di anni fa, abbandonò davanti alla porta della nostra emittente la rivendicazione dell’attentato compiuto in quei giorni a Palazzo Marino, facendosi riprendere dalla telecamera della sicurezza.  Come abbiano fatto a condannarla prima e a confermarle la condanna dopo, proprio non saprei dirvi, visto che Patrizia ha sempre negato l’addebito e che l’unico elemento utile per la sua identificazione, l’unica “prova” disponibile contro di lei, consiste nella registrazione di quella telecamera, una registrazione così malriuscita, così evidentemente illeggibile, che al processo è stata presentata in una versione rielaborata elettronicamente, che, per quanto rielaborata, è risultata ancor meno leggibile dell’originale.  Ma l’hanno condannata lo stesso e ciascuno potrà riflettere per conto suo sul perché.  Se non altro, in appello le sono state riconosciute le attenuanti generiche, il che ha portato la pena dai cinque anni originari a tre anni e nove mesi, metà dei quali già abbondantemente scontati, una riduzione che, in base alle leggi vigenti avrebbe dovuto consentirne la scarcerazione.

       Avrebbe dovuto.  Perché martedì scorso, prima che la corte si ritirasse per la sentenza, l’imputata, cui era stato chiesto, come d’uso, se avesse qualcosa da dire, l’ha fatta proprio grossa.  Ha ribadito la sua innocenza, che agli occhi di certi giudici è già una colpa grave, e ha aggiunto che, comunque, dentro o fuori dal carcere, lei sarebbe restata l’anarchica di sempre.  I non molti presenti hanno applaudito e il Presidente, dottor Gnocchi, seccatissimo, ha fatto sgomberare l'aula.   E un paio d’ore dopo, usciti i giudici dalla camera di consiglio, ha pronunciato un’ordinanza che nega a Patrizia la scarcerazione, in quanto, a suo avviso, “esiste il pericolo di reiterazione del reato”, come si desumerebbe proprio dalle parole che la Cadeddu ha pronunziato dalla gabbia, parole “che confermano la sua appartenenza alla parte politica che realizzò l’attentato”.  Come a dire che, anche se l’associazione automatica tra anarchismo e sovversione dinamitarda è ormai soltanto un relitto ideologico, per quella corte basta dichiararsi anarchici per essere esclusi dai diritti che la legge riconosce agli altri cittadini.

       Nessuno, a quanto pare, si è stupito per questa decisione.  I giornali ne hanno dato conto in microscopici trafiletti, in uno dei quali, sul Corriere della sera, l’autore si è permesso perfino di fare dello spirito, scrivendo tutto soddisfatto che l’imputata “ha salutato con un ‘Viva l’anarchia’ la mamma e i trenta ‘compagni’ presenti in aula” (“compagni”, chissà perché, è scritto tra virgolette)  e “poi è tornata in cella.”  A tutti, evidentemente, sembra normale che una dichiarazione di appartenenza politica anomala da parte di un imputato, venga considerata una colpa da punire.  A tutti sembra normale che il nostro paese, che proprio in questi giorni, come cinquantotto anni fa, partecipa (oggi come allora in posizione subordinata) a un’aggressione militare contro i nostri vicini, disponga, oggi come allora, di un tribunale che giudica i “nemici dello stato” sulla base della loro appartenenza politica.   Con la differenza che allora, sotto il fascismo, questo compito era deferito a un piuttosto sinistro “Tribunale Speciale”, mentre oggi vi provvede, in via – appunto – normale, una Corte d’Appello qualsiasi.  Al peggio, si sa, non c’è mai fine.

       Il fatto è che, quando si tratta di imputazioni politiche (ma non solo di quelle),  da troppi anni, in Italia, i tribunali tendono a giudicare e a sancire, più che i singoli fatti addebitati, il comportamento processuale e ideologico degli imputati.  Che devono accettare la colpa imputatagli, devono pentirsene, devono dimostrare il proprio pentimento mediante un’attiva cooperazione con la Giustizia (un eufemismo che significa – in genere – accettare il ruolo del delatore) e devono promettere che non lo faranno più, rinunciando, se del caso, alle proprie scelte ideologiche.   Sono i frutti avvelenati della legislazione d’emergenza, delle scelte compiute, in nome della lotta al terrorismo, negli anni di piombo e ribadite in seguito, quando ormai il terrorismo e la lotta armata erano solo un brutto ricordo, perché senza pentiti e senza legislazione premiale la nostra magistratura non era, evidentemente, più in grado di assolvere alle proprie funzioni.  Chi volesse ripercorrere il percorso che ha portato a questa situazione può farlo, oggi, grazie all’appassionante pamphlet che Paolo Persichetti e Oreste Scalzone hanno pubblicato da poco, con il titolo Il nemico inconfessabile, per le edizioni Obradek.

       Quel volumetto, in realtà, non affronta il problema dell’innocenza degli imputati, anzi, ha buon gioco nel mettere in luce la malafede e la strumentalità di molte dichiarazioni di innocenza ideologica.  Ma questo non toglie che oggi, in Italia, per un imputato proclamarsi innocente, soprattutto in riferimento a dei fatti concreti, sia molto pericoloso.  Chi è innocente non ha niente di cui pentirsi, non ha niente da scambiare in cambio della propria libertà.  Non più compiere nessuna abiura e l’abiura – a quanto pare – è condizione indispensabile, sia pure non sufficiente, per accedere a questo tipo di mercato.   Che significa, in ultima analisi, la pretesa di controllare le coscienze, di criminalizzare qualsiasi dissenso, di imporre a tutto il corpo sociale le stesse scelte ideologiche.  Come ben si addice, in fondo, a un paese in guerra.


28.03.’99