Nipoti

La caccia | Trasmessa il: 03/20/2005



Quando, domenica scorsa, è stato reso noto che Alessandra Mussolini era stata estromessa dalla contesa elettorale nel Lazio e sono cominciate a girare le prime voci sulle responsabilità in merito del presidente di quella regione, il “Corriere” ha pubblicato una vignetta piuttosto azzeccata: l’immagine del celebre nonno della esclusa, in uniforme e stivali, che, dalla sua nuvoletta ultraterrena guardava in basso e chiedeva, con aria incazzosissima, “Chi è questo Storace?”.  In effetti, per uno come lui, che aveva ben saldo il senso della solidarietà familiare, l’idea che un qualsiasi potentato locale – quello che all’epoca si sarebbe definito un gerarca – si potesse permettere un simile sgarbo nei confronti di una sua consanguinea, sarebbe apparsa perlomeno bizzarra.  A meno, naturalmente, che non ci fosse stata a giustificarla qualche solida ragione di stato o di partito: il duce era, in sostanza, un politico puro e non ha mai permesso in vita sua che le necessità della politica fossero soverchiate da considerazioni di natura privata. Lo dimostra, tanto per fare un esempio, la sua gestione di quel disgraziatissimo affare che fu il caso Ciano.  Sapeva fin troppo bene che la lotta per il potere non è un pranzo di gala e il fatto che tra i suoi eredi potessero allignare agguati e imboscate reciproche non lo avrebbe meravigliato più di tanto.
        Quello che lo avrebbe meravigliato davvero – suppongo – sarebbe stata l’idea che sua nipote reagisse all’oltraggio facendo lo sciopero della fame.  A Mussolini, che amava tenersi informato sulle cose del mondo, Gandhi non era del tutto ignoto, anzi, è probabile che ne apprezzasse la capacità di creare fastidi all’impero britannico. Tuttavia, non si può certo dire che le tecniche della nonviolenza facessero parte del patrimonio genetico suo e del regime.  Se c’è un elemento, anzi, che conferisce unità alle molteplici svolte della sua carriera, consiste proprio nella esaltazione delle virtù marziali, nel culto della forza, nella fiducia nell’uso delle armi: non per niente aveva confidato, per arrivare al governo, più nell’applicazione intensiva del manganello che nella costruzione del consenso e si trovò, negli ultimi giorni, ad affidare le poche, residue speranze di sopravvivenza al raggio della morte.  No. Se c’è una cosa che con il fascismo ha decisamente poco a che fare, un’antitesi – quasi – del modello antropologico e culturale che quel sistema ideologico ebbe l’ambizione di incarnare, va identificato nel pacifismo e nella pretesa di imporre le proprie ragioni senza nuocere fisicamente agli avversari.  Lo sciopero della fame, che di questa pretesa rappresenta una delle applicazioni più radicali, è decisamente incompatibile con l’orbace.
        Ora, io non so se l’Alessandra in questione sia (o si consideri) davvero fascista.  Ho, anzi, la mezza impressione che, se pur non le manca la grinta, non si tratti del tipo di grinta caratteristico di quella trucida identità.  Ma è poco ma sicuro, ahimè, che la ragazza ha fatto carriera sfruttando il suo cognome e che ha lasciato Alleanza Nazionale quando Fini si è permesso di definire il fascismo una forma di “male assoluto”.  Quanto al tipo di compagnia cui si è aggregata dopo la rottura, be’, non farebbe proprio pensare a un’improvvisa conversione a quei principi liberali che al  nonno sembravano, giusta la lezione di Giovanni Gentile, decisamente fuori dalla storia.
        Eppure guardatela.  Non ha fatto altro, in questi giorni, che parlare di democrazia e di quanto sia deplorevole negare a qualcuno il giudizio dell’urna.  E non si è limitata ai comunicati stampa: non si è mossa per una settimana dal suo camper, come una militante alternativa degli anni ‘70, e, finché non è arrivata la sentenza del TAR, mangiare non ha mangiato di certo.  Certo, non era paragonabile a Gandhi, che digiunava a oltranza e lo dimostrava con il suo aspetto emaciato: il suo era, come ormai usa, un digiuno alla Pannella, temperato dall’attenta ponderazione di un certo numero di cappuccini ben zuccherati e di bottiglioni di acqua minerale, ma a questo, ormai, siamo arrivati e in un paese dove non ci si vergogna di praticare lo sciopero della fame a rotazione (una pratica non molto dissimile, dal punto di vista del singolo militante, dall’astinenza dal cibo tra un pasto e l’altro) quell’impegno è sembrato a molti più convincente delle battutacce degli ex sodali su quanto bene potesse farle un’energica cura dimagrante.
        È stata ed è, l’Alessandra, in contraddizione con i propri principi?  Sì, forse sì, ma che cosa volete che importi?  Su contraddizioni di questo genere si regge, ormai, l’intero luna park mediatico della politica nazionale.  La nipote del duce che digiuna in difesa della democrazia fa da perfetto pendant ai dirigenti della sinistra che si sdilinquiscono per il mercato.  Non esiste, a cercarlo, un leader che si senta in alcun modo impegnato dal proprio ruolo o dalla tradizione ideologica cui dichiara di appartenere (ove, per caso, ce ne sia una).  Tutti dicono tutto e il contrario di tutto, nella ricerca disperata dell’effetto immediato di fronte ai microfoni e alle telecamere.   L’Italia è fatta così: il paese in cui si può passare, tra il plauso delle masse, da un importante ruolo direttivo in FIAT alla direzione della “Unità”, da Lotta Continua al Movimento per la Vita, dalla segreteria del Partito Radicale alla guida degli eredi della Democrazia Cristiana.  È l’eterna patria delle convergenze parallele, la nazione dove il capo del governo in visita alla Guardia di Finanza esorta i contribuenti a non pagare le tasse, in cui i cardinali raccomandano di non andare a votare, i ministri azzannano i giudici, i fautori della secessione e quelli dell’unità nazionale siedono insieme al governo e si discetta sull’opportunità di organizzare le elezioni primarie a patto che vi ci si presenti un candidato solo.  La povera Mussolini in materia è poco più che una dilettante e l’incoerenza di cui ha dato prova, al confronto, è stata una incoerenza gentile, quasi patetica.  Presto o tardi, vedrete che la etichetteranno come un esempio vivente di dialettica della storia in senso hegeliano e si libereranno definitivamente di lei, facendone una specie di icona bipartisan  della crisi delle ideologie.
        Per fortuna che siamo in fase di par condicio e mi è risparmiato l’obbligo di confidarvi il mio parere su questa interessante eventualità.

20.03.’05