Nero Wolfe a Garlasco

La caccia | Trasmessa il: 12/20/2009


    Come tutti i veri appassionati di gialli, non posso soffrire la cronaca nera: ho sempre pensato che gli unici delitti che si lascino sopportare siano quelli immaginari. Se mi è capitato di interessarmi un poco all'inchiesta sull'omicidio di Garlasco, è stato solo perché la mossa d'apertura degli inquirenti, quella su cui si fondava l'intero impianto accusatorio crollato con la sentenza di giovedì, l'osservazione – cioè – per cui l'indiziato non aveva le scarpe sporche di sangue, laddove in un mondo ordinato il sangue non sarebbe dovuto mancare, era, nella sua paradossalità, un tipico argomento da mystery. Lo avrebbe potuto esibire, che so, un Nero Wolfe, nel corso di una di quelle riunioni plenarie che organizzava a fine romanzo, e il colpevole ne avrebbe subito dato conferma, tentando la fuga o qualche altro atto inconsulto. Non è andata così, a dimostrazione del fatto che la realtà è, al tempo stesso, più semplice e più complicata della finzione narrativa e la cosa non può che tranquillizzarci.
    Alessandro Piperno, sul “Corriere” di ieri, azzarda un parallelismo letterario più alto, citando Lo straniero di Albert Camus, in cui i giudici di Mersault, che è accusato di un omicidio che peraltro ha già ammesso, dedicano molte cure alla ricostruzione dei suoi comportamenti nelle settimane precedenti al delitto, al fine apparentemente futile di dimostrare come egli abbia “un cuore di criminale”. Anche gli accusatori di Alberto Stasi, osserva lo scrittore, si sono sforzati di dipingere il loro imputato come un “gelido pervertito, reo, tra l'altro, proprio come Marsault, di non aver pianto abbastanza e in maniera convincente per la morte della sua ragazza” e quegli sforzi sono stati tanto più notevoli quanto più l'accusa, per il resto, è apparsa “fumosa, sciatta e imprecisa”. Ma questo, in un certo senso, si spiega, non restando a coloro altra scelta, in mancanza di elementi un po' sostanziosi (niente movente, niente arma del delitto, niente prove attendibili), che quella di descrivere l'unico indiziato nel modo più sgradevole possibile. E di condividere con l'opinione pubblica, naturalmente, ogni particolare che questa antipatia confermava, nell'evidente tentativo di giungere a una condanna “a furor di popolo”, in cui il pre-giudizio mediatico si riflettesse in qualche modo su quello, molto aleatorio, che ci si poteva attendere in corte. Oggi, evidentemente, in Italia indagini e processi si fanno così. Prima si costruisce psicologicamente un colpevole e poi si cercano le prove per dichiararlo tale e se non ci si riesce, lo si processa lo stesso, perché non ci si può più tirare indietro. È una tecnica che nessuno scrittore di gialli potrebbe permettersi, perché si sa che in quel genere di letteratura quanto più un personaggio è antipatico tanto più si è sicuri della sua innocenza. Ma è anche una tecnica che mai e poi mai verrebbe in mente all'ispettore Cramer, al sostituto procuratore Skinner o agli altri antagonisti di Nero Wolfe, per quanto convinti, nella loro ottusità funzionale, della colpevolezza della loro preda. Sono immersi, loro, i lettori, l'autore, in quella cultura della prova che caratterizza la common law e che nulla, o ben poco, ha che fare con il principio del “libero convincimento del giudice” come lo interpreta la nostra cultura giuridica. Non è tutta colpa dei nostri giudici, dunque. Ma è strano che nessuno rifletta che il fatto che si possano organizzare inchieste del genere e protrarle – mi sembra – per oltre tre anni, offra più argomenti ai fautori del processo breve, della separazione delle carriere e dell'aumento dei vantaggi processuali dell'imputato di quanti ne possa elaborare in una legislatura l'intero stato maggiore del Popolo della Libertà.

20.12.'09