Neologismi fortunati

La caccia | Trasmessa il: 05/27/2007



    Se tanto mi dà tanto, un termine come “delocalizzazione” è destinato ad avere, nel linguaggio politico e pubblicistico, altrettanta fortuna di “extracomunitario”. tratta, in un caso o nell’altro, di espressioni mediamente dotte, fortemente caratterizzate in senso giuridico e burocratico, ma di comprensione abbastanza immediata per chiunque, vista la trasparenza delle radici latine su cui sono costruite. A prima vista, a voler fare i pignoli, si caratterizzano entrambe anche per una certa ridondanza semantica, nel senso che di tutti e due i neologismi, volendo, si potrebbe fare benissimo a meno, bastando a iosa per definire la figura dell’extracomunitario il vecchio termine “immigrato” e non esprimendo la delocalizzazione nulla di diverso di un banale “trasferimento”. Ma naturalmente se un termine nasce e ha fortuna vuol dire che ce n’era, in qualche modo, bisogno: così si preferisce parlare di extracomunitari e non di immigrati, perché il neologismo sottolinea con una certa perfidia connotativa l’estraneità dei soggetti in questione alla nostra comunità (quali che siano i fondamenti giuridici su cui la si definisce) e si delocalizza un’attività produttiva perché non sembra bello, o conveniente, dichiarare tout court l’intenzione di chiuderla per riaprirla (forse) altrove. Per non dire che il verbo, di suo, ha una certa sfumatura decisionista ed è anche per questo, probabilmente, che le autorità competenti preferiscono dichiarare che le attività commerciali dei cinesi di via Paolo Sarpi saranno delocalizzate, e non trasferite. L’espressione serve a far capire che non di un normale trasferimento si tratta, ma di un atto di imperio nei confronti di quei soggetti. Ci si trasferisce, spesso, di propria volontà, ma si viene delocalizzati, sempre, da qualcun altro.
    Anche per questo tipo di provvedimento, in verità, la lingua italiana disponeva già dei vocaboli acconci, potendosi parlare – volendo – di “espulsione” di quel gruppo di extracomunitari dalle vie del centro o di una loro “deportazione” ad Arese o altrove, ma quelle non erano evidentemente espressioni che il senatore De Corato o i residenti del quadrilatero Sarpi-Bramante-Canonica-Arena gradissero impiegare. Noi milanesi, si sa, siamo buoni per definizione, siamo gente generosa e aperta che non espelle né deporta nessuno: ci limitiamo, appunto, a delocalizzare quello che, per motivi oggettivi (la larghezza dei marciapiedi, le difficoltà di parcheggio…), non si può mantenere in loco. Siamo abbastanza vicini, come vedete, alla categoria dell’eufemismo e totalmente immersi in quella dell’ipocrisia. D’altronde, tutto il linguaggio burocratico, con i suoi termini creati ad hoc con l’evidente proposito di conferire una sorta di oggettività terminologica a quelle che sono scelte e definizioni affatto opinabili, è intriso da una sua sottile ipocrisia, che a volte, come nel nostro caso, emerge facilmente alla luce, ma più spesso resta nascosta sotto la superficie. La nostra cultura condanna il razzismo e a nessuno – salvo pochi – piace invocare o adottare dei provvedimenti apertamente razzisti, ma non c’è niente di esplicitamente razzista in quei termini e nelle prassi che descrivono e sottintendono e se a uno, per un motivo o per l’altro, non piace avere dei vicini di origine orientale nulla gli impedisce di utilizzarli, salvando al tempo stesso la propria coscienza (quel poco che ne resta) e la propria “immagine”.
    Come nulla impedisce a noi di osservare che la progettata espulsione dei commercianti cinesi da via Paolo Sarpi e dintorni, oltre a essere una iniziativa intrinsecamente razzista, che poco o nulla ha a che fare con i problemi della sicurezza con i quali è stata artatamente confusa, rappresenta, da un punto di vista sociale e urbanistico, una immane cazzata. Perché cosa ci mettiamo in quelle vie, una volta estromessi i fastidiosi grossisti dagli occhi a mandorla e liberatici dai loro carrelli da marciapiede e dai loro furgoni in seconda fila? Ci mettiamo altre banche, altri loft, altri locali da aperitivo, altri empori di moda? Di tutto questo la zona è fin troppo fornita e a Milano, si sa, si apre ben poco d’altro. Quel progetto, in realtà, vorrebbe smontare (anzi, distruggere) un sottosistema in piena espansione, che ha restituito una certa vitalità a quelle vie, sottraendole alla decadenza in cui versa la maggior parte dei quartieri semicentrali della nostra ex operosa città. Ma dal punto di vista di chi comanda aizzando la paura e la diffidenza, la vitalità, specie se comporta una pelle di altro colore, può essere pericolosa. Tanto vale delocalizzare anche quella.

27.05.’07