Motivi di allarme

La caccia | Trasmessa il: 06/03/2007



    Si racconta che all’alba del 19 aprile 1906, dopo che la città di San Francisco, durante la notte, era stata praticamente rasa al suolo dal terremoto, un signore dal sonno pesante si risvegliò nella sua camera di albergo, in quello che, probabilmente, era l’unico edificio ancora in piedi di tutta la Barbary Coast. Suonò per il cameriere, provò ad accendere la luce e visto che né il campanello né l’interrutore davano segni di vita commentò, seccatissimo, che doveva essere mancata la corrente.
    Non ricordo con esattezza dove ho letto questo apologo (quasi sicuramente immaginario): sulle pagine di P.G. Woodehouse, forse, o di qualche altro autore che condivideva il suo gusto per una comicità dolcemente surreale. Si tratta, comunque, di una lettura di molti anni fa e con il tempo l’avevo dimenticata. Ma mi è tornata alla mente vivissima quando mi è capitata sotto gli occhi l’intervista che Piero Fassino ha rilasciato a “Repubblica” a ridosso della tornata elettorale amministrativa, quella in cui ammetteva che i relativi risultati potevano essere considerati “un campanello di allarme” per il governo. Un caso di elegante understatement che ricorda molto, lo ammetterete, quello dell’immaginario dormiglione californiano. Con la differenza, naturalmente, che un terremoto è un fenomeno naturale, difficile da prevedere e impossibile da evitare, mentre sul fatto che il centrosinistra si avviasse al disastro non c’erano, da mesi, dubbi di sorta. Il che, peraltro, non ha impedito ai suoi esponenti di incrementare il tasso di rissosità interna (si stanno accapigliando, al momento, sulla leadership di un partito ancora da costruire) e di fare, nel complesso, tutto quanto agli elettori più spiace. Chissà se ci vorrà una nuova stangata elettorale perché Fassino si spinga a dire che, perbacco, è giunto il momento di darsi una regolata.
    Nell’attesa, di motivi di allarme non ne mancano neanche per noi. Non riguardano forse il futuro di un governo fin troppo evidentemente paralizzato, né quello di una sinistra che sembra essersi spaccata una volta per tutte sulla scelta tra autoliquidazione e autoreferenzialità, ma le conseguenze che la situazione comporta per noi, be’, quelle sì che meritano di essere attentamente valutate. La remissività, l’impotenza, la fatuità di quei dirigenti sta dando spazio a un vero e proprio imbarbarimento del gioco politico. Non so a voi, ma a me questi giovanotti e queste signore che vanno al governo delle città in nome dell’ordine e della sicurezza, che promettono (senza averne, peraltro, il potere) retate di extracomunitari a gogò e deportazioni in massa di rom, che chiedono l’abolizione delle Sovrintendenze alle Belle Arti perché la difesa di “quattro sassi” non può bloccare il business edilizio, che si sgolano in difesa dell’ergastolo e della tolleranza zero e non fanno mistero della intenzione di tagliare, in nome del profitto privato, tutti i servizi possibili, be’, questa gente a me non dice niente di buono. Sono l’espressione del lato peggiore di questo paese, della sua vocazione codina e provinciale, della grossolana ignoranza che lo pervade sottopelle, dell’egoismo che ne contraddistingue la classe dirigente. E poco male finché a incarnare queste sgradevoli caratteristiche sono i pupilli di Bossi e i compagni d’arme di Calderoli, gli ex neofascisti riciclati e gli imitatori in sedicesimo di Berlusconi. Quelli fanno solo il loro mestiere e tanto peggio per chi gli dà retta. Ma il guaio è che il successo che riscuotono quei figuri sta creando un modello dal quale sono sempre in più a sentirsi tentati. Perché, capirete, si comincia a dire che la sinistra non può essere indifferente al problema della sicurezza (come se quel problema avesse una e una sola soluzione), che non ci si può contrapporre alle sacrosante esigenze espresse dai cittadini, che certe vecchie parole d’ordine fanno venire l’orticaria soltanto a sentirle e, una banalità dopo l’altra, il salto della quaglia è bello che fatto e ci si trova a contrapporsi alla destra in nome degli stessi valori che sostiene e delle stesse pretese che avanza. E a questo punto, si capisce, il problema di chi vince o che perde diventa del tutto irrilevante.
    La cosa, evidentemente, non turba chi è troppo occupato a chiedersi se l’assemblea del partito democratico debba eleggere un segretario, un portavoce o uno speaker, o chi non ha ancora deciso se aprire un cantiere o costituire una fondazione. Tutte futilità che a mala pena nascondono i poveri giochi di potere che sono chiamate a coprire, ma che denunciano anche un’incapacità di rispondere alle necessità del momento che fa, francamente, impressione. Per liberarci da questa specie di ottundimento intellettuale ci vorrà, temo, ben altro che un terremoto.

03.06.’07