Per essere l’opera di esordio, come ci si spiega nel risvolto, di “due
attivisti dell’underground milanese”, celati per l’occasione sotto un
unico pseudonimo, Monocromatica sembra fondato su una situazione,
tutto sommato, abbastanza banale. Anzi: su due situazioni
abbastanza banali. Si parte, figuriamoci, con un giovanotto che si
trova a dover custodire un manoscritto misterioso, di cui altri vorrebbe
impossessarsi, al punto da incaricare della bisogna un sicario professionista.
Il fatto che il giovanotto in questione sia un immigrato marocchino
nella nostra città e che via via gli si affianchino altri esponenti del
melting pot milanese contemporaneo, una operosa e determinatissima
ragazza cinese e un piccolo spacciatore africano dotato di insospettabili
doti di saggezza e preveggenza, non impedisce di riconoscere uno schema
abbastanza abusato. Tanto più che i tre si imbarcano quasi subito
in un specie di percorso iniziatico, alla ricerca di un luogo o un oggetto
che non sanno bene nemmeno loro cosa sia, ma di cui si sottolinea continuamente
l’importanza ed la capacità di dar senso, il che significa che il modello
del Codice da Vinci, con rispetto parlando, si confonde con quello
della Compagnia dell’anello e si sa che non basta contaminare tra
loro due motivi ben noti per ottenere qualcosa di originale. Insomma,
il sospetto, fin dalle prime pagine, è quello di trovarsi di fronte a una
di quelle operazioni di natura affatto commerciale cui, talvolta, gli esponenti
dell’underground hanno il vezzo di indulgere.
Quello che
salva il romanzo, paradossalmente, è l’impostazione realistica della sua
scrittura. La Milano in cui si muovono i tre personaggi principali,
per non dire del sicario che li tiene d’occhio, insieme a un paio di altri
villains di incerta natura e del solito maniaco di informatica cui
tocca la decifrazione del manoscritto, è, inaspettatamente, la città che
conosciamo, vissuta e descritta con una straordinaria capacità empatica,
con un specie di realismo fantastico che riesce a fare presa anche su chi,
come me, ama il fantasy così poco da poter quasi dire che lo detesta.
Non capita spesso, in realtà, di trovare in un’opera narrativa,
di genere o non di genere, tanta consonanza con questa città difficile
e complicata e con la sua realtà contemporanea. E la tecnica onirica
con cui è organizzata la trama, in una serie di episodi collegati tra loro
piuttosto debolmente e alternati a squarci di cronache della storia violenta
che Milano ha vissuto, dai tempi della sua fondazione mitica al nostro
comune ieri, riesce coinvolgere come e più di un plot normalmente
articolato. Certo, alla non originalità degli assunti fa riscontro
una conclusione altrettanto banale, quella per cui, essendo la storia del
mondo (e della città) “scritta col sangue”, esiste un luogo in cui tutto
questo sangue, quasi si concentra e si fa potenza magica, ma questa è solo
la cornice e, nonostante la prosopopea con cui è presentata, si può ben
passarci sopra. I personaggi funzionano, la loro odissea ha un senso
e se gli autori non se la tirassero un po’, in fondo, non sarebbero due
autentici militanti dell’underground. E chissà, magari un giorno
o l’altro potrebbero decidere di scrivere un autentico noir…
R. S. Blackswift, Monocromatica, Colorado Noir, pp. 250, € 15,00