Missioni e sacrifici

La caccia | Trasmessa il: 02/21/2010


    Donna straordinaria, la nostra sindaca. Non batte ciglio di fronte alla tempesta che ha investito la sua maggioranza, anzi, è assolutamente sicura (pur se, in verità, non spetterebbe a lei accertarlo) che non ci troviamo alle prese con una “nuova Tangentopoli”. Sì, qualcuno tra i suoi può aver ceduto alla classica tentazione della mazzetta, ma sono casi singoli, di scarsa o nulla rilevanza generale. E d'altronde la soluzione è bella e trovata: “Mi sento di dire” ha affermato “che chi entra in politica deve pensare di sacrificare l'aspetto economico.” Deve pensare, per l'esattezza, che “entra al servizio dei cittadini” e se “desidera una carriera che prevede un buon stipendio” è meglio che non ne faccia niente. La politica “deve essere veramente reinterpretata come una missione.”
    Nobili parole, invero, che ben meriterebbero di essere eternate su una lapide in marmo o in granito da collocare in opportuna posizione centrale, per esempio all'ingresso dei prossimi “Giardini Bettino Craxi”. La Moratti le ha pronunciate in riferimento ai troppi casi di amministratori pubblici beneficiari di lucrosi “doppi incarichi”, come denunciato da vari membri del suo stesso partito (comunque ha aggiunto, a scanso di complicazioni, che non si sente di “colpevolizzare” il fatto), ma è difficile che non pensasse anche ai casi di corruzione che da qualche tempo rampollano nel centrodestra milanese. Se tutti prendessero la politica come una missione, se tutti potessero sacrificare l'aspetto economico, se tutti – in definitiva – fossero ricchi, perché solo chi non ha pressanti problemi di bilancio personale può permettersi di pensare ad altro, il problema, a parere di donna Letizia (chiedendo scusa, per l'usurpazione dell'appellativo, alla grande Colette Roselli), non si porrebbe.
    A onta della sua apparente futilità, l'argomento ha alle spalle tutta una sua tradizione. Risale per lo meno al V secolo a. C., quando, nell'Atene di Pericle, gli oligarchi – allora li si chiamava così – trovavano inconcepibile che ai non ricchi fossero rimborsate le giornate di lavoro perse per partecipare alle assemblee o adempre agli incarichi pubblici. I lavoratori manuali, a loro avviso, dovevano limitarsi alle proprie competenze – cioè lavorare manualmente – e lasciare gli affari di stato nelle mani di chi non era costretto a sporcarsele per procacciarsi di che vivere. Ragionamenti di questo genere affiorano praticamente in tutte le nostre fonti, sono sviluppati con particolare coerenza nell'opera del cosiddetto “Anonimo della Costituzione di Atene” e non lasciarono indifferente il sommo Platone, che alla critica della democrazia e delle sue prassi dedicò, come è noto, gran parte della sua opera. Ma senza andare a rivangare polemiche così remote, non ci è ignoto che sulla opportunità di retribuire i rappresentanti del popolo si discusse a lungo man mano che nel pensiero politico europeo si faceva strada l'idea stessa di rappresentanza, negli anni tra la rivoluzione britannica e quella francese (e anche dopo) e che la soluzione prevalsa, dovuta all'ovvia necessità democratica di non escludere da certi diritti chi non avesse i mezzi per esercitarli, fu duramente contestata dai conservatori più conseguenti per lo meno fino agli inizi del Novecento.
    I ricchi, certo, non hanno bisogno di rubare. Ciò non significa che non rubino, perché l'appetito, si sa, vien mangiando, ma non è questo – forse – il problema. Il fatto è che i rapporti tra necessità e libertà sono indubbiamente più complicati di quanto sembri pensare la signora di Palazzo Marino e il problema della corruzione, a pensarci, è alquanto più aggrovigliato. I tentatori non si fanno avanti soltanto sventolando mazzette: offrono potere, visibilità, influenza e – talvolta, e oggi sempre più spesso – belle ragazze. Ciò non significa, ovviamente, che tra le condizioni richieste al politico ci sia anche l'indifferenza sessuale. Un eunuco ricco non è di necessità il miglior amministratore possibile e può fare persino peggio, a seconda dei casi, di un nullatenente assatanato. Tutto dipende dal sistema di valori cui fa riferimento, dall'eticità cui ritiene, se lo ritiene, di doversi attenere. L'imperativo morale, ahimè, è formale e categorico, non dipende dai contenuti cui si applica e sulla moralità di uno che non rubasse soltanto perché non ne ha bisogno il vecchio Kant avrebbe avuto parecchio da ridire.
    Avrebbe avuto parecchio da ridire, peraltro, sui criteri che vigono nell'amministrazione pubblica del nostro paese, a Milano e altrove, sullo stretto intreccio di affari pubblici e privati che la caratterizza e sull'assoluta indifferenza ai conflitti d'interesse che a partire dalla posizione più alta si riversano a cascata su quelle inferiori. Quello delle mazzette, in questa prospettiva, è soltanto un peccato veniale e l'esserne esente non autorizza nessuno, compresa la Moratti, con tutti i suoi milioni, a lanciare la prima pietra. E neanche l'ultima.
21.02.'10

    Nota

    Sull'Anonimo della Costituzione di Atene (Pseudo Senofonte), cfr. Albin Lesky, Storia della letteratura greca (1957 - '58), tr. it. Milano 1962, v. II, pp. 584 – 587.