Fa quasi tenerezza ritrovare sui giornali
di questi giorni, gonfi di clamori di guerra e di strage, appesantiti dalle
parole arroganti di personaggi esecrabili e di pretenziosi vaniloqui spacciati
per opinioni autorevoli, fa quasi tenerezza – dicevo – ritrovare le innocue
smargiassate del nostro Presidente de Consiglio, quello che un giorno si
vanta di essere sul punto di operare un “cambiamento titanico” dell’apparato
statale e un altro si gloria di aver messo finalmente pace, con la sola
forza della sua dinamica personalità, tra la Russia e la Nato. E
che si lamenta solo perché “certa stampa” ha l’abitudine di “cogliere
qualunque possibilità per una critica” e per “eventualmente citare una
possibile gaffe” che lui, come ci assicura egli stesso, abitualmente non
fa. Eppure non dovrebbe volerci molto per rendersi conto che l’unica
speranza per il paese consiste in una sua lunga, lunghissima permanenza
al governo. Il fatto che la macchina dello stato sia così disastrata,
per dirne una, si spiega semplicemente perché “ci sono stati cinquanta
governi in cinquant’anni” (veramente, la citazione esatta dice “in cinque”,
ma sarà un errore di stampa) e “anche perché la sinistra è arretrata.”
No.
Non chiedetevi cosa c’entri l’arretratezza della sinistra con il
fatto che l’Italia abbia avuto, in mezzo secolo, cinquanta governi. Lui,
Berlusconi, non è ancora riuscito a convincersi del fatto che di tutti
quei governi la sinistra, se vogliamo continuare a chiamarla così, ne ha
gestito esattamente tre e gli altri quarantasette sono stati tutti appannaggio
di forze i cui sostenitori hanno trovato sicuro approdo nel suo partito.
A queste banalità non è solito prestare attenzione. L’Italia
ha avuto cinquanta governi e la sinistra è arretrata, punto e basta. Un
rapporto ci sarà bene e basta saperlo trovare. “Vi invito a riflettere”
continua infatti il Berlusca “sul fatto che ancora non credono” (quelli
di sinistra, ovviamente) “a questo miracolo, per cui le leggi e le regole
del mercato sanno trasformare gli egoismi individuali in benessere generale.
È una cosa che non riescono a capire”. E per lo stesso motivo
la sinistra guarda “con sospetto se non con avversione” a tutto ciò che
è privato: “dalla scuola privata, all’università privata, alla proprietà
privata.”
Non
si tratta, ve lo assicuro, di una parodia per la quale, d’altronde, non
sarei qualificato. Tutte queste dichiarazioni sono state rese dal
Presidente in persona alla Consulta del suo partito, riunitasi, come riferisce
la “Repubblica” di giovedì scorso, a Palazzo Colonna, a Roma, un gran
bel palazzo, come non ha mancato di rilevare il capo del governo, un palazzo
in confronto al quale tutte le pur sontuose abitazioni in cui egli è solito
dimorare sembrano delle semplici portinerie, anche perché sono sprovviste
di un fantasma di famiglia, mentre tutte le vecchie dimore dovrebbero averne
uno “magari quello della nonna che sapeva fare i dolci”. E se credete
che mescolare nello stesso discorso il fantasma della nonna dolciaria,
il risanamento titanico del paese e l’arretratezza cronica della sinistra
sia un sintomo pericoloso di confusione mentale, vuol dire che non capite
niente di strategia della comunicazione. Una barzellettina qua, una
battutina là e si fanno passare dei concetti che, nudi e crudi, potrebbero
suscitare le riserve dei più creduloni. Come quello de “miracolo”
che trasforma l’interesse personale in benessere per tutti.
Oh
Dio, che l’egoismo dei singoli sia, in ultima analisi, alla base del progresso
e – quindi – di un miglioramento della società tutta non è un’invenzione
del mago di Arcore. È un vecchio postulato dell’utilitarismo illuminista,
e ha fatto scorrere, a suo tempo, fiumi di inchiostro. Mi sembra
di ricordare, per esempio, che ne abbia trattato diffusamente Pietro Verri
sul “Caffè”. Ma lui, poveretto, scriveva ai primissimi albori della
società industriale e poteva ancora credere che bastasse ampliare i consumi
per portare la felicità in terra. Noi, dopo aver visto come è stato
ridotto il pianeta dall’applicazione sconsiderata delle leggi del profitto
e del mercato, avremmo il dovere di essere un po’ più cauti. E d’altronde,
già a quei tempi non ci credevano tutti: basta andare a rileggersi il Candide
di Voltaire, che di questo ottimismo sociale rappresenta al tempo stesso
una critica spietata e una feroce parodia. Per il dottor Pangloss,
com’è noto, ci si poteva consolare di tutto, dell’essere stato scacciato
a calci nel sedere da un bel castello, dell’essere stato sottomesso all’Inquisizione,
dell’aver percorso a piedi l’America e dell’aver perso tutti i montoni
carichi dei tesori dell’Eldorado, perché laggiù nel Bosforo remoto, dove
lui e i suoi amici erano finiti, il lavoro assiduo e paziente permetteva
di mangiare cedri canditi e pistacchi. Ma Berlusconi, naturalmente,
con il dottor Pangloss non ha nulla a che fare. Lui a coltivare il
proprio giardino non ci pensa nemmeno. Se lo fa coltivare dagli altri
e, grazie al meccanismo del plusvalore, i cedri canditi e i pistacchi se
li sbafa alla faccia loro. Per forza che è tanto ottimista.
14.04.’02