Metafore pubblicitarie

La caccia | Trasmessa il: 10/29/2000



Non sono sicuro, naturalmente, di quale sia il mondo che vorreste voi.  Ma posso assicurarvi che quello che vorrei io non è (ripeto: non è) quello illustrato da quei manifesti che fioriscono sui cantoni per pubblicizzare – mi sembra - un “portale” telematico, ipotizzando che quanto tutti sogniamo sia la contemplazione di un’auto dei vigili urbani con i ceppi antiparcheggio alle ruote, o, alternativamente, la comparsa, non è chiaro se in edicola o in farmacia, di un corso di inglese in tre supposte, anzi, in tre suppostone formato missile intercontinentale.  Perché è vero, naturalmente, che la vecchia trovata dantesca del contrappasso esercita sempre il suo fascino sulle anime semplici, per cui l’idea che chi la fa l’aspetti e che chi mette in ceppi le auto altrui debba trovare, presto o tardi, in ceppi la propria, può fare sorridere, ma non serve un’intelligenza da Premio Nobel per capire che da quel tipo di gratificazione ben poco, in ultima analisi, avremmo tutti da guadagnare.  E quanto alle suppostone, be’, saluteremmo con gioia anche noi l’avvento di un metodo che ci permettesse di imparare l’inglese o lo swahili con la stessa facilità con cui si assumono i farmaci, ma non siamo nati ieri e sappiamo benissimo che le particolari modalità di assunzione delle supposte suscitano nella mente dei più delle associazioni concettuali sgradevoli, riproponendo furbescamente una volgare metafora dello stupro con cui si è soliti alludere a chi subisce (o a chi infligge) prevaricazioni e ingiustizie.  Ora, sugli stupri, sulle prevaricazioni e sulle ingiustizie non ci sembra proprio il caso di scherzare.   Non avremmo niente in contrario a un corso d’inglese in tre bicchieri d’acqua, che si bevono, com’è noto, con la massima facilità, o in tre pillole, che basta un po’ di zucchero e vanno giù che è una meraviglia, ma le supposte…  ecco, le supposte meglio lasciarle in farmacia.   È fin troppo chiaro che sono state scelte per evocare proprio quella metafora, nel sereno convincimento che nulla quanto il ricorso al pecoreccio serva a fissare l’attenzione altrui su un messaggio.  Il che, francamente, ci mortifica alquanto.
        Non so neanche, visto che siamo in tema di manifesti pubblicitari, se sia vero, come asserisce la diffusissima réclame di una marca di jeans, che “le vere puttane” siano gli uomini.  Quanto a disponibilità a vendere, in mancanza di meglio, se stessi ho sempre pensato che ambo i sessi fossero, più o meno, alla pari.  Ma forse è vero che la vigente divisione sociale dei valori assegna al genere femminile una maggior attenzione ai sentimenti interpersonali e a quello maschile un più pronunciato interesse per l’economico, per cui che una donna si venda è, da un certo punto di vista, più improbabile che si venda un uomo e l’affermazione di quel manifesto può essere considerata corretta , anzi, visto che ci ha fatto pensare al problema, corretta e meritoria.  O almeno sarebbe meritoria se lo slogan non fosse accompagnato dall’immagine di un numero variabile di personaggi, di sesso chiaramente femminile, agghindati e truccati secondo l’uso che di solito si associa a chi esercita quella melanconica professione.  Come dire che le vere puttane sono gli uomini, ma se voglio mostrarti una, due o tre puttane le scelgo donne, perché se no non interessa a nessuno.  Che è una bella contraddizione, ma tanto è ovvio che anche in questo caso chi ha elaborato slogan e immagini cercava solo di imporre il nome del suo prodotto all’attenzione altrui con un’affermazione apparentemente trasgressiva, anche se di trasgredire alcunché, in ultima analisi, non aveva né l’intenzione né l’interesse.
        Che volete che vi dica: secondo me, di quel portale e di quei jeans varrebbe la pena di diffidare un po’.
29.10 ’00