Non sono sicuro, naturalmente, di quale
sia il mondo che vorreste voi. Ma posso assicurarvi che quello che
vorrei io non è (ripeto: non è) quello illustrato da quei manifesti che
fioriscono sui cantoni per pubblicizzare – mi sembra - un “portale”
telematico, ipotizzando che quanto tutti sogniamo sia la contemplazione
di un’auto dei vigili urbani con i ceppi antiparcheggio alle ruote, o,
alternativamente, la comparsa, non è chiaro se in edicola o in farmacia,
di un corso di inglese in tre supposte, anzi, in tre suppostone formato
missile intercontinentale. Perché è vero, naturalmente, che la vecchia
trovata dantesca del contrappasso esercita sempre il suo fascino sulle
anime semplici, per cui l’idea che chi la fa l’aspetti e che chi mette
in ceppi le auto altrui debba trovare, presto o tardi, in ceppi la propria,
può fare sorridere, ma non serve un’intelligenza da Premio Nobel per capire
che da quel tipo di gratificazione ben poco, in ultima analisi, avremmo
tutti da guadagnare. E quanto alle suppostone, be’, saluteremmo
con gioia anche noi l’avvento di un metodo che ci permettesse di imparare
l’inglese o lo swahili con la stessa facilità con cui si assumono i farmaci,
ma non siamo nati ieri e sappiamo benissimo che le particolari modalità
di assunzione delle supposte suscitano nella mente dei più delle associazioni
concettuali sgradevoli, riproponendo furbescamente una volgare metafora
dello stupro con cui si è soliti alludere a chi subisce (o a chi infligge)
prevaricazioni e ingiustizie. Ora, sugli stupri, sulle prevaricazioni
e sulle ingiustizie non ci sembra proprio il caso di scherzare.
Non avremmo niente in contrario a un corso d’inglese in tre bicchieri
d’acqua, che si bevono, com’è noto, con la massima facilità, o in tre
pillole, che basta un po’ di zucchero e vanno giù che è una meraviglia,
ma le supposte… ecco, le supposte meglio lasciarle in farmacia.
È fin troppo chiaro che sono state scelte per evocare proprio quella
metafora, nel sereno convincimento che nulla quanto il ricorso al pecoreccio
serva a fissare l’attenzione altrui su un messaggio. Il che, francamente,
ci mortifica alquanto.
Non
so neanche, visto che siamo in tema di manifesti pubblicitari, se sia vero,
come asserisce la diffusissima réclame di una marca di jeans, che “le
vere puttane” siano gli uomini. Quanto a disponibilità a vendere,
in mancanza di meglio, se stessi ho sempre pensato che ambo i sessi fossero,
più o meno, alla pari. Ma forse è vero che la vigente divisione sociale
dei valori assegna al genere femminile una maggior attenzione ai sentimenti
interpersonali e a quello maschile un più pronunciato interesse per l’economico,
per cui che una donna si venda è, da un certo punto di vista, più improbabile
che si venda un uomo e l’affermazione di quel manifesto può essere considerata
corretta , anzi, visto che ci ha fatto pensare al problema, corretta e
meritoria. O almeno sarebbe meritoria se lo slogan non fosse accompagnato
dall’immagine di un numero variabile di personaggi, di sesso chiaramente
femminile, agghindati e truccati secondo l’uso che di solito si associa
a chi esercita quella melanconica professione. Come dire che le vere
puttane sono gli uomini, ma se voglio mostrarti una, due o tre puttane
le scelgo donne, perché se no non interessa a nessuno. Che è una
bella contraddizione, ma tanto è ovvio che anche in questo caso chi ha
elaborato slogan e immagini cercava solo di imporre il nome del suo prodotto
all’attenzione altrui con un’affermazione apparentemente trasgressiva,
anche se di trasgredire alcunché, in ultima analisi, non aveva né l’intenzione
né l’interesse.
Che
volete che vi dica: secondo me, di quel portale e di quei jeans varrebbe
la pena di diffidare un po’.
29.10 ’00