Metafore di successo

La caccia | Trasmessa il: 05/27/2007



    Vi confesserò di non essermi particolarmente turbato di fronte alle dichiarazioni con cui il Presidente Cordero di Montezemolo ha avanzato, salvo smentite, la propria candidatura alla guida del paese. Non ha detto, ne converrete, nulla di straordinario e quello che ha detto mi è sembrato più vicino alle idee del centrosinistra che a quelle dell’opposizione. Capisco che Prodi un poco si sia seccato, ma questo significa appunto che in quelle parole il capo del governo ha visto più una mossa concorrenziale che una vera proposta antagonista. Anche Montezemolo, per quel che ne posso capire, mira al centro e di leader centristi o aspiranti tali ce ne sono già tanti che uno in più o uno in meno, per quanto suoni aristocratico il suo nome e sia autorevole la sua posizione attuale, non fa una gran differenza.
    Mi sono irritato di più, se devo essere sincero, per la sconcertante unanimità con cui tutti, ma proprio tutti, i commentatori, compresi i nostri colleghi di Radio Popolare, si sono rifugiati, per riferire della decisione, nella stessa metafora. Hanno scritto e detto all’unisono che l’ottimo Luca, con quell’intervento, era “sceso in campo”. E ammetterete anche voi che di discese di tal genere, francamente, non se ne può più. Da quando Berlusconi ha coniato l’espressione, con la sua infausta videocassetta del 1994, non c’è stata richiesta di investitura popolare che non sia stata definita in quel modo. Da allora sono scesi in campo tutti, compresi coloro che per conformazione e aspetto meno suggerivano l’idea di un atleta pronto per la partita. Di fatto, l’impiego di quell’immagine ricorre con tanta ossessiva regolarità che uno finisce con l’immaginarsi i nostri leader politici, da Prodi a Casini, da Fini a Cofferati, dalla Moratti a Veltroni, mentre in tuta e scaldamuscoli attendono, ai margini del terreno di gioco, il cenno dell’allenatore.
    Il giornalismo, si sa, è ripetitivo per natura. Quando agguanta un’immagine di successo, non la molla per nulla al mondo. I titoli sono sempre quelli e la tecnica di costruzione delle notizie non varia mai. Ma a tutto, naturalmente, c’è un limite, anche perché il rapporto tra fatto e notizia è meno lineare di quanto sembri e tutto ciò che si scrive e comunica, metaforizzazioni comprese, ha le sue brave ricadute. L’immagine della discesa in campo andava benissimo per Berlusconi, e non soltanto per via della dimestichezza che il soggetto poteva vantare con il mondo del calcio. Era tipico dell’uomo di Arcore vedere nella politica non tanto un impegno da assumere o una scelta di vita, nei termini tradizionali dell’ideologia del dovere con cui i politici, dal tempo degli stoici in poi, hanno venduto se stessi, quanto un’arena in cui esibirsi, un’occasione di strappare, a forza di virtuosismi, gli applausi del pubblico ammirato. Il nocciolo del suo messaggio, quello che non si sarebbe stancato di ripetere per gli anni successivi, non riguardava tanto programmi e obiettivi, che sono cose su cui il cavaliere è sempre stato piuttosto vago, ma si concentrava con ben maggiore pregnanza sulle sue personali, asserite capacità. In sostanza il Berlusca ha sempre detto ai suoi elettori, o a coloro che desiderava fossero tali, una cosa sola: “Vedete quanto sono bravo”.
    I suoi avversari, naturalmente, hanno sempre avuto parecchie difficoltà a scendere in campo in quel senso. Erano tutti legati, chi più chi meno, alla concezione tradizionale della politica, come a dire che in quel campo ci si trovavano già, ci avevano già fatto le loro prove, anzi, alcuni (D’Alema, per dirne uno, ma non solo lui) ci erano addirittura nati. La metafora non gli fu risparmiata, ovviamente, ma il suo uso per loro era abbastanza improprio, tanto è vero che comportava una forzatura, nel senso di una implicita berlusconizzazione di figure e personaggi che, nel bene e nel male, appartenevano a tutt’altra tipologia umana e politica. Ma questo è appunto il problema della nostra classe dirigente, da quando l’amico Silvio, tredici anni fa, ha imposto così clamorosamente se stesso: che da allora tutti hanno cercato, in un modo o nell’altro, di berlusconizzarsi e sono stati giudicati implicitamente nei termini della propria capacità di farlo. Quando di questo o di quell’aspirante candidato si scrive che scende in campo, si esprime, senza neanche rendersene conto, l’auspicio che possa essere un altro Berlusconi.
    Il fatto che l’auspicio, finora, sia restato vano non sembra aver diminuito le aspettative, a sinistra non meno che a destra (e forse un tantino più). Non sarà, probabilmente, Montezemolo a realizzarle, visto che in Italia la politica ha una sua soglia di durezza e quando il gioco si fa duro non sono i tipi come lui che cominciano a giocare. Ma morto un papa si spera sempre di farne un altro, per cui restiamo appesi comunque all’attesa della Discesa in Campo definitiva, dell’avvento del Castigamatti supremo, di colui che risolverà da solo, in un modo o nell’altro, i guai del paese. Come a dire che anche da una banalità giornalistica si può evincere la fragilità e la debolezza della nostra democrazia.

    27.05.’07