Messaggi segregati

La caccia | Trasmessa il: 03/18/2001



Vi avevo promesso, la volta scorsa, di dirvi cosa pensavo dei manifesti pubblicitari del nuovo succo di frutta a base di mela (di “mela verde”, per la precisione, anche se suppongo che, una volta spremute, le mele verdi non siano diverse da quelle di altro colore).  Poi, nel corso della settimana, avevo quasi deciso di lasciar perdere, perché mi sembrava che una campagna tutta basata sullo slogan “meladai?” si qualificasse per conto suo come un esempio di insopportabile volgarità.  Ma visto che quei manifesti continuano a moltiplicarsi e al “meladai?” si è affiancato un ancor meno sopportabile “melagodo”, per non dire di quel “melastoppo” che l’Accame, uomo di letture più vaste e organiche delle mie, mi segnala di aver trovato in prima pagina sulla “Gazzetta dello sport”, credo che qualche rapida considerazione in materia non ce la si possa proprio risparmiare.
        Vedete, non è soltanto un problema di volgarità.  Se così fosse, la questione sarebbe soprattutto di gusto, e, in fatto di gusto, ciascuno è notoriamente libero di pensarla come vuole.  I giochi di parole basati sull’associazione di un dativo pronominale maschile, di un accusativo femminile generico e dei verbi “dare” e “prendere” non sono certamente il massimo della raffinatezza, ma la raffinatezza è una dote che non si può, né si deve, chiedere a tutti.  E d’altronde, una volta quelle agudezas erano rigorosamente limitate a contesti ben definiti, nell’ambito dei quali si riteneva che non potessero dare fastidio a nessuno.  Conferivano il loro non eccelso sapore alle canzonacce di osteria, alle barzellette che gli adolescenti si scambiavano nelle toilettes della scuola, alle confidenze di cui gli atleti si dilettavano negli spogliatoi prima o dopo le prestazioni sportive.   In quegli ambienti, a frequentazione segregata per sessi, si poteva coltivare l’illusione che i rapporti sessuali fossero una faccenda, per così dire, a senso unico, una questione – appunto – di dare e di prendere per cui tu mela dai, io mela godo e morta lì.  Era un’illusione che poteva funzionare soltanto in una società in cui le gerarchie sessuali fossero molto ben definite, e infatti allignava prevalentemente nei luoghi di ritrovo maschili.  Non dubito che nei loro spogliatoi, nelle loro toilettes e nei loro ritrovi le signore parlassero anche loro di sesso, ma probabilmente ricorrevano ad altri eufemismi, che meglio si addicevano a delle creature che, in termini di gerarchia, erano piazzate piuttosto male.
        Ora, mi rendo conto del fatto che la quantità di messaggi pubblicitari messi quotidianamente in circolazione che il problema principale, per chi ce li mette, è quello di farsi innanzitutto notare.  E abbiamo già visto insieme, in questi mesi, come, a tal fine, stia diventando sempre più comune la tecnica della falsa ingenuità: di usare, cioè, scritti e parole che, pur apparentemente irreprensibili, rimandino a un qualche sottofondo disdicevole, facendo conto sull’effetto scandalo che il doppio senso potrà provocare.  So che non c’è nulla di più normale della presenza del bisillabo “mela” nella pubblicità di un succo di questo frutto, e, forte di questa normalità, posso impunemente instaurare il doppio senso malizioso che renderà il mio messaggio più cospicuo e più visibile degli altri.  Ma come sono bravo, ma come sono bravo.
        Naturalmente anche chi fa queste cose sa che il discorso deve essere, in qualche modo, contestualizzato.  Il calembour tra “stappo” e “stoppo”, per esempio, può essere proposto soltanto a un pubblico abituato a far uso del verbo “stoppare”, che in italiano si adopera esclusivamente come termine tecnico del gioco del calcio, e infatti non comparirà per strada ma sulle pagine della “Gazzetta”.  La limitazione appare ragionevole e normale.  Ma pone un problema: quello di come possa essere considerato il contesto delle strade cittadine dal punto di vista di coloro che ai passanti propongono il gioco di parole implicito tra “mi dai la mela” e “meladai”.
La strada, in fondo, non è uno spogliatoio.  Vi passiamo tutti, uomini e donne, etero e gay, asceti e maniaci sessuali.  E quel messaggio, invece, funziona (può funzionare) soltanto in riferimento a una porzione ben precisa di questa massa potenziale di fruitori.  Gli altri – le altre –  vengono implicitamente cancellati.  Come a dire che pur di poter stabilire l’agognato riferimento scurrile si ripristinano come se niente fosse delle discriminazioni e delle stratificazioni che, con minore o maggiore entusiasmo e in varie gradazioni di buona fede abbiamo tutti fatto una fatica da bestia per cancellare.  In questo sta la volgarità di quella campagna.  E, naturalmente, la sua incommensurabile imbecillità.

Carlo Oliva, 18.03.’01