Vi avevo promesso, la volta scorsa,
di dirvi cosa pensavo dei manifesti pubblicitari del nuovo succo di frutta
a base di mela (di “mela verde”, per la precisione, anche se suppongo
che, una volta spremute, le mele verdi non siano diverse da quelle di altro
colore). Poi, nel corso della settimana, avevo quasi deciso di lasciar
perdere, perché mi sembrava che una campagna tutta basata sullo slogan
“meladai?” si qualificasse per conto suo come un esempio di insopportabile
volgarità. Ma visto che quei manifesti continuano a moltiplicarsi
e al “meladai?” si è affiancato un ancor meno sopportabile “melagodo”,
per non dire di quel “melastoppo” che l’Accame, uomo di letture più
vaste e organiche delle mie, mi segnala di aver trovato in prima pagina
sulla “Gazzetta dello sport”, credo che qualche rapida considerazione
in materia non ce la si possa proprio risparmiare.
Vedete,
non è soltanto un problema di volgarità. Se così fosse, la questione
sarebbe soprattutto di gusto, e, in fatto di gusto, ciascuno è notoriamente
libero di pensarla come vuole. I giochi di parole basati sull’associazione
di un dativo pronominale maschile, di un accusativo femminile generico
e dei verbi “dare” e “prendere” non sono certamente il massimo della
raffinatezza, ma la raffinatezza è una dote che non si può, né si deve,
chiedere a tutti. E d’altronde, una volta quelle agudezas erano
rigorosamente limitate a contesti ben definiti, nell’ambito dei quali
si riteneva che non potessero dare fastidio a nessuno. Conferivano
il loro non eccelso sapore alle canzonacce di osteria, alle barzellette
che gli adolescenti si scambiavano nelle toilettes della scuola, alle confidenze
di cui gli atleti si dilettavano negli spogliatoi prima o dopo le prestazioni
sportive. In quegli ambienti, a frequentazione segregata per sessi,
si poteva coltivare l’illusione che i rapporti sessuali fossero una faccenda,
per così dire, a senso unico, una questione – appunto – di dare e di
prendere per cui tu mela dai, io mela godo e morta lì. Era un’illusione
che poteva funzionare soltanto in una società in cui le gerarchie sessuali
fossero molto ben definite, e infatti allignava prevalentemente nei luoghi
di ritrovo maschili. Non dubito che nei loro spogliatoi, nelle loro
toilettes e nei loro ritrovi le signore parlassero anche loro di sesso,
ma probabilmente ricorrevano ad altri eufemismi, che meglio si addicevano
a delle creature che, in termini di gerarchia, erano piazzate piuttosto
male.
Ora,
mi rendo conto del fatto che la quantità di messaggi pubblicitari messi
quotidianamente in circolazione che il problema principale, per chi ce
li mette, è quello di farsi innanzitutto notare. E abbiamo già visto
insieme, in questi mesi, come, a tal fine, stia diventando sempre più comune
la tecnica della falsa ingenuità: di usare, cioè, scritti e parole che,
pur apparentemente irreprensibili, rimandino a un qualche sottofondo disdicevole,
facendo conto sull’effetto scandalo che il doppio senso potrà provocare.
So che non c’è nulla di più normale della presenza del bisillabo
“mela” nella pubblicità di un succo di questo frutto, e, forte di questa
normalità, posso impunemente instaurare il doppio senso malizioso che renderà
il mio messaggio più cospicuo e più visibile degli altri. Ma come
sono bravo, ma come sono bravo.
Naturalmente
anche chi fa queste cose sa che il discorso deve essere, in qualche modo,
contestualizzato. Il calembour tra “stappo” e “stoppo”, per esempio,
può essere proposto soltanto a un pubblico abituato a far uso del verbo
“stoppare”, che in italiano si adopera esclusivamente come termine tecnico
del gioco del calcio, e infatti non comparirà per strada ma sulle pagine
della “Gazzetta”. La limitazione appare ragionevole e normale.
Ma pone un problema: quello di come possa essere considerato il contesto
delle strade cittadine dal punto di vista di coloro che ai passanti propongono
il gioco di parole implicito tra “mi dai la mela” e “meladai”.
La strada, in fondo, non è uno spogliatoio.
Vi passiamo tutti, uomini e donne, etero e gay, asceti e maniaci
sessuali. E quel messaggio, invece, funziona (può funzionare) soltanto
in riferimento a una porzione ben precisa di questa massa potenziale di
fruitori. Gli altri – le altre – vengono implicitamente cancellati.
Come a dire che pur di poter stabilire l’agognato riferimento scurrile
si ripristinano come se niente fosse delle discriminazioni e delle stratificazioni
che, con minore o maggiore entusiasmo e in varie gradazioni di buona fede
abbiamo tutti fatto una fatica da bestia per cancellare. In questo
sta la volgarità di quella campagna. E, naturalmente, la sua incommensurabile
imbecillità.
Carlo Oliva, 18.03.’01