Uno sta all’estero qualche tempo, poi
torna e si guarda in giro per vedere che cosa è cambiato. A prima
vista, non è cambiato un granché. La solita gente in giro, i soliti
manifesti di Berlusconi. Poi, mentre riflette sul fatto che quel
Berlusconi in maglione con la faccia vissuta è, tutto sommato, più simpatico
di quello, stiratissimo, che campeggiava sui muri prima di capodanno, si
accorge che, qua e là, e nelle debite proporzioni quantitative, si vedono
anche dei manifesti di Rutelli. Degli eleganti manifesti a base
cromatica verde, in cui si spiega che loro – i rutelliani, suppongo –
hanno sempre difeso l’ambiente e che da lui dipende il nostro futuro.
Bah.
Che dalla difesa dell’ambiente dipenda il nostro futuro è un’affermazione
su cui, tutto sommato, è difficile non concordare (anche se, naturalmente,
si potrebbe sostenere con pari credibilità che è dal futuro che ci costruiremo
che dipenderà l’ambiente). Ma quel che impedisce, comunque, di sottoscrivere
toto corde l’affermazione è la presenza di quel pronome, di quel “lui”
che, nel corretto uso italiano, non può riferirsi all’ambiente, potendosi
applicare, come si leggeva nelle vecchie grammatiche, solo ai soggetti
animati. E da quale soggetto animato dipenderà mai il nostro futuro?
Da Rutelli? Difficile. Se i seguaci di Berlusconi sono
disposti ad attribuire ogni possibile bene a venire all’attività salvifica
del loro leader, noi, che ci gioviamo di una cultura diversa, preferiremmo
dipendere, per il nostro futuro, soprattutto da noi stessi.
Mi
dicono che il problema è già stato posto e superato. Una banale questione
grammaticale. Ma forse meno banale è la questione che pongono quegli
altri manifesti del nostro, quelli con cui il sindaco del Giubileo ci garantisce,
tra l’altro, più sicurezza e “una giustizia più giusta”. Due bellissime
cose, naturalmente, perché di sicurezza non ce n’è mai abbastanza e di
una magistratura in grado di fare giustizia senza che sia necessario, ogni
volta, usare le virgolette si sente davvero bisogno, ma due cose che, senza
le opportune precisazioni, ricordano molto gli slogan dell’altra parte.
Chi erano quelli che, fino a ieri, si lamentavano per il dilagare
della delinquenza e attaccavano caparbiamente una gestione delle cose giudiziarie
sentita come persecutoria nei loro riguardi? Se il problema esiste
per tutti, le soluzioni proposte dovrebbero essere diverse. E non
si vede proprio traccia, in questo inizio ufficiale della campagna elettorale,
di qualsivoglia diversità.
Sì,
d’accordo, ribattono i manifesti del primo partito della sinistra, ma
il nostro, non dimentichiamocene, è il “polo positivo”. Che sarà
vero, figuriamoci, ma significa anche accettare e far propria una strutturazione
degli schieramenti politici proposta, a suo tempo, proprio dall’avversario.
Fu Berlusconi, nel ’94, che, non potendo sostenere che le organizzazioni
che lo sostenevano formavano una coalizione, o un’alleanza, perché
all’epoca la Lega era fieramente antifascista e AN era rigidamente votata
all’ideale unitario, decise, con brillante improvvisazione semantica,
che costituivano un polo. Il che, essendo un polo, nell’uso metaforico
invalso, qualcosa attorno a cui ci si organizza o ci si definisce, voleva
dire che si trattava di un insieme di forze eterogenee che avevano in comune
soltanto il fatto di appoggiare lui. E la sinistra, che pure avrebbe
qualche argomento per definirsi in termini ideali e programmatici, deve
proprio ridursi a un polo ruotante attorno a un leader carismatico? E
chi mai glielo fa fare?
Sarò
il solito pessimista, ma da queste prime contrapposizioni a specchio non
mi sembra di poter inferire niente di buono.
11.02.’01