Madri di guerra

La caccia | Trasmessa il: 01/11/2009


    Brutti giorni stiamo vivendo e giorni ancora più brutti ci siamo lasciati alle spalle: giorni in cui le tristi luminarie e i riti obbligati del periodo festivo non sono riusciti a far passare in secondo piano le brutte notizie che ci giungevano e ci giungono dal mondo e in particolare, ancora una volta, da quella Palestina in cui una logora tradizione si ostina a collocare, con involontaria ironia, l'avvento della Buona Novella. Notizie di bombardamenti feroci, di incursioni pianificate, di vittime a centinaia: di un olocausto, insomma, nel quale sembrano destinati ad ardere e a perdersi insieme due popoli e due società, perché se è molto improbabile che i palestinesi possano mai risollevarsi dal sistematico massacro cui sono sottoposti da decenni, è altrettanto difficile che Israele riesca a isolare i germi della propria stessa ferocia, a guarire dall'illusione di poter conquistare la pace e la sicurezza con la forza militare e la capacità di reprimere. Convincimenti del genere hanno portato alla rovina, nei secoli, realtà politiche di dimensioni ben maggiori, segnando la fine di società e culture anche grandi, ma tragicamente incapaci di rendersi conto che quella che consideravano una cura, magari dolorosa, ma comunque necessaria, era, in realtà, la malattia. La delegittimazione a priori dell'avversario, quella che in tutto il mondo, ormai, si affida all'imputazione di terrorismo è, di questa malattia, appunto uno dei sintomi più eloquenti.
    Ancora più dolorosa, da un certo punto di vista, è la relativa indifferenza in cui tutto questo ha luogo. Non parliamo dei governi e delle strutture di questo nostro Occidente tremebondo e asservito di fronte ai diktat della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Il fatto è che questa guerra, diversamente che in passato, non suscita né emozioni né commozione. È come se la nostra capacità di reagire di fronte alle orribili cose che si compiono in Medio Oriente si sia in qualche modo appannata, come se l'abitudine all'orrore e la mancanza sempre più evidente di una prospettiva di soluzione abbiano intorpidito il nostro senso di indignazione morale. Ci stiamo convincendo (ci siamo convinti) che nessuno di noi vedrà mai tornare la pace in quei territori contesi e non abbiamo più il coraggio di ripetere degli slogan e delle analisi che troppe volte si sono rivelati inutili o fallaci. E di questo sanno approfittare alla grande i molti sciacalli che nelle vicende di questi giorni vedono soltanto una ennesima occasione di propaganda. Pensate al fuoco di fila preventivo cui si sono abbandonati i commentatori principali della grande stampa, unanimi nel denunciare, prima ancora che si manifestasse, qualsiasi tentazione di dissociarsi dalle scelte israeliane, qualsiasi messa in discussione, pur cautelosa e dubitativa, delle ragioni e dei diritti di quel governo. Agli occhi di tutti costoro una semplice osservazione sulla sproporzione tra reazione esibita e offese lamentate è sembrata, a dir poco, una manifestazione di antisemitismo; ogni ragionevole invito alla trattativa con tutte le parti in causa una malleveria di terrorismo malamente mimetizzata. Non sto a fare nomi, ma basta scorrere gli editoriali del “Corriere” delle ultime due tre settimane per raccogliere ogni desiderabile documentazione in merito.
    E ancora più fastidiosi di questa protervia ideologica sono i luoghi comuni di cui si serve e si nutre. Perché è inutile rivestirla di termini più o meno aggiornati, quali il “conflitto di civiltà” (per chi ci crede) o la contrapposizione, per quanto sbilenca, tra democrazia e, appunto, terrorismo: quasi tutti gli argomenti di questa guerra parallela di propaganda sono riconducibili alla vecchia prassi del militarismo, un sistema di pensiero che non si è mai fatto scrupoli di verità quando si trattava di esaltare la propria parte e di denigrare quella altrui. Ed è di militarismo che si nutrono tanti sedicenti amici di Israele, di compiacimento per l'efficienza di quell'esercito e la precisione letale delle sue attrezzature, di sottovalutazione giustificatoria delle perdite inflitte ai civili, di esaltazione della capacità di sottomettersi ovunque alle dure esigenze della logica di guerra. Non c'è da stupirsi se in questa logica rientra persino la riesumazione di certi vecchissimi temi della retorica militare. Così, ho trovato giorni fa in un articolo di “Repubblica”, un giornale che, pure, a volte sembra sforzarsi di non allinearsi del tutto alla logica degli alti comandi, nientemeno che il tema delle “madri di guerra”, delle donne che ai loro figli impegnati nei combattimenti altro non chiedono che di fare il loro dovere, costi quello che costi. “Torma con questo o su questo” dicevano duemilacinquecento anni fa le donne di Sparta nel consegnare lo scudo ai figli in partenza per la battaglia, intendendo che l'unica alternativa che si sentivano disposte a lasciargli era quella di vincere (e tornare così alla base con lo scudo fieramente imbracciato) o morire, nel qual caso lo strumento sarebbe stato impiegato dai commilitoni superstiti come portantina per il cadavere, mentre quella di lasciarsi sconfiggere, abbandonando lo scudo al nemico, non era un'ipotesi prevista. Non ricordo se su questo lugubre ammonimento rferisca Senofonte, Plutarco o qualche altro esperto di cose spartane, ma chiunque abbia appena frequentato gli studi classici ne avrà, come minimo, sentito parlare: si tratta, in sostanza, di un tipico argomento retorico, fondato sul rovesciamento plateale di un luogo comune diffuso, quello per cui alle madri soprattutto sta a cuore la salvezza e l'incolumità dei figlioli, usato per dimostrare l'eccezionalità del gruppo cui ci riferisce e, per estensione, di tutta la comunità di cui fa parte. Ritrovarmelo, in termini aggiornati, su un quotidiano che leggo tutti i giorni mi ha fatto una certa impressione. Oggi, naturalmente, non si usano più gli scudi e la raccomandazione non è affidata alla concisione dell'epigramma: le donne in questione vanno in Internet, affidano ai blog e ai post il proprio orgoglio di essere “la madre di un soldato”, la propria ammirazione per le capacità di tiratore scelto del figlio, le contumelie contro il nemico e l'incrollabile convinzione di essere, comunque, dalla parte giusta, ma il concetto è essenzialmente lo stesso. E sono analoghe le riflessioni che le loro parole inducono in chi non può che riflettere sul fatto che Sparta, com'è noto, disponeva dell'esercito più grande e potente dei tempi suoi, ma di quella città, poi, non sono rimaste nemmeno le mura, a testimonianza di quanto sia futile affidare alla forza e solo alla forza la propria volontà di sopravvivenza.

    11.01.'09


    Nota

    L'articolo di “Repubblica”, si intitola “La guerra via blog delle madri – 'Mio figlio soldato batterà Hamas'” ed è stato pubblicato lunedì 5 gennaio.